Jeanne du Barry – La favorita del re
La recensione di Jeanne du Barry - La favorita del re, di Maїween, a cura di Frédéric Pascali.

L’approcciarsi alla contemporaneità del lungo ‘700 francese finisce, per l’ennesima volta, sotto la lente d’ingrandimento del mondo di celluloide con una storia legata al fascino indissolubile di Versailles, dei suoi re, delle sue regine e della sua corte. Le luci del cinematografo si accendono sulle vicende legate a Jeanne du Barry, una delle cortigiane più famose della storia della monarchia francese, relegando sullo sfondo i cariaggi del secolo dei Lumi, carichi delle loro rivoluzioni.
Diretta dalla francese Maїween, che veste anche egregiamente il ruolo della protagonista, la pellicola è una specie di biopic che, con il supporto di una voce narrante, prende avvio dal momento in cui Jeanne di cognome fa Vaubernier e sogna, anche attraverso la lettura, di sfuggire al suo destino di povera ragazza di provincia. Costretta a intraprendere la professione in un bordello di lusso, la sua bellezza e intelligenza ben presto le regalano gli incontri decisivi. Prima con lo scaltro Jean-Baptiste du Barry e poi con il maresciallo di Richelieu, diretto esponente della corte di Luigi XV. È il viatico giusto per incontrare il re libertino, ben impersonato da un ombroso e redivivo Johnny Deep. L’amore tra i due sconvolge i riti compassati del tempo e l’avvenente cortigiana diventa un simbolo anticonformista difficile da piegare alla volontà altrui.
Jeanne du Barry – La favorita del re si rivela un racconto abile nell’esporre il pensiero della protagonista, le sue aspirazioni e la sua natura mordace. La macchina da presa gioca molto sulla definizione dei dettagli per scavare nelle personalità, senza perdere troppo di vista il quadro complessivo. La scrittura un po’ teatrale di Maїween, coadiuvata da Teddi Lussi-Modeste e Nicolas Livecchi, punta decisa sulle aspirazioni della sensibilità di una donna che pur vivendo all’interno di una fiaba non smette mai di calcare la realtà. Assolutamente di rilievo la fotografia di Laurent Dailland e la musica di Stephen Warbeck.

di Frédéric Pascali