Jackie

A soli dieci giorni di distanza da quel fatidico e «maledetto» 22 novembre a Dallas e negli scomodi panni di neo-vedova dell’uomo destinato a entrare nel mito come il più carismatico Presidente americano di sempre (oltre che genuino simbolo di quello spirito liberal di cui il progressismo a stelle e strisce in versione USA ha sempre fatto un marchio di fabbrica), Jaqueline Lee Bouvier in Kennedy decise a sorpresa di rilasciare una delle pochissime interviste concesse nell’arco di un’intera vita.

Lo scopo reale di quell’incontro (divenuto poi di fatto un monologo interrotto solo a tratti da brevi e laconiche domande da parte dell’intervistatore) avrebbe dovuto essere una ricostruzione dei tragici momenti precedenti e susseguenti agli spari che troncarono repentinamente la vita di JFK, fatta però dalla prospettiva di chi quegli attimi presto cristallizzati in infinite immagini e inchieste era stata chiamata a viverli suo malgrado in diretta. Avrebbe dovuto essere così. Per lo meno nelle intenzioni di partenza, anche se in realtà, come il pubblico di milioni di lettori si accorse quasi subito dopo la pubblicazione del celebre pezzo sulle colonne della rivista il 6 dicembre del 1963 e come questo falso biopic di lusso s’impone di dimostrare in tutti i suoi cento minuti di durata, era di tutt’altro tipo.

A essere prescelto per il grande onore fu Theodore H. White, inviato presidenziale della rivista «Life» nonché futuro premio Pulitzer per meriti giornalistici ma soprattutto ritenuto dal clan Kennedy una penna amica dalla quale sarebbe stato lecito aspettarsi lealtà assoluta e nessuna ambizione di sfruttamento della quanto mai rara occasione di poter parlare con la first lady (ormai convertita in first widow) di un argomento tanto delicato quanto l’assassinio del carismatico ammaliatore di folle col quale era convolata a felici nozze solo tre anni prima.

Tutto era stato preparato a tavolino da Jacqueline, fredda antesignana delle moderne tecniche di marketing dell’immagine personale e capace di non lasciare al caso nemmeno il più insignificante dei dettagli. E questo non ostante lo stato di prostrazione psicologica in cui versava in quei giorni, reduce com’era non solo dallo shock della sparatoria di Dallas ma anche dal turbinio febbrile di eventi accumulatisi nei giorni successivi all’omicidio nonché dalla gestione dei funerali solenni di JFK così come dal trauma dell’abbandono repentino della Casa Bianca e dall’urgenza di avviare l’elaborazione personale di un lutto devastante che un’intera nazione avrebbe impiegato decenni a scrollarsi di dosso.

L’intervista avrebbe dovuto avvenire nel patio monumentale della casa di Hyannis Port, a Cape Cod, simbolo visibile e curatissimo della potenza garbata di una famiglia caratterizzata da generazioni da un mix di antico benessere e influenza politica esercitata come solo certi progressisti sanno fare. A Jacqueline sarebbe toccato il compito di rivedere la versione finale del pezzo, auto-attribuendosi il diritto di espungere ciò che avesse ritenuto poco in linea con i reali scopi per cui aveva deciso di rilasciare l’intervista. E, non ultimo, il fatto che l’autore dell’articolo avrebbe dovuto dettarlo direttamente dalla magione dei Kennedy, evitando così che qualche frase indesiderata potesse sfuggire alle maglie del controllo della padrona di casa. E così fu. Tutto secondo copione. Compresa la dettatura del pezzo dalla cucina.

Ed è proprio partendo da quell’intervista che Noah Oppenheim — autore di fortunati programmi TV ma anche divulgatore storico per il «New York Times» — decise dieci anni or sono di scrivere una sceneggiatura tesa a mettere al centro di una vicenda (per troppi anni monopolizzata in absentia dal cadavere di chi ne era stato vittima) colei che quei tragici momenti di orrore epocale li aveva vissuti sulla propria pelle ed era stata chiamata a convivere con un dopo troppo grande anche per una personalità di donna d’acciaio quale la sua.

Per anni quest’idea era stata sulle labbra di molti a Hollywood. Al punto che nel 2011 sembrava che Spielberg, partendo da una delle prime stesure del progetto, avesse accettato di tradurla in una miniserie per la TV. La palla era poi passata a Darren Aronofsky il quale ne avrebbe fatto volentieri un film se non fosse che la sua relazione con Rachel Weisz (destinata a vestire i panni di Jackie) era naufragata proprio pochi mesi prima di iniziare le riprese. Deciso a non abbandonare il progetto, il regista de Il cigno nero lo propose al collega e amico cileno Pablo Larraín a Berlino nel 2015 (dove quest’ultimo era in concorso con Il Club), che però sulle prime declinò l’invito perché impegnato in quel periodo con le riprese di Neruda.

Attratto dall’idea di una nuova incursione nella grande Storia attraverso la rivisitazione di un’importante protagonista di eventi destinati a diventare epocali (dopo le riflessioni sullo stesso tema già presenti in Post mortem, No – I giorni dell’arcobaleno e appunto in Neruda), il talentuoso regista cileno decise di accettare quello che sarebbe stato il suo primo film su commissione. Oltre che il primo girato in terra americana e in inglese, ma anche caratterizzato da una protagonista femminile e soprattutto privo della presenza dell’attore feticcio Alfredo Castro, suo mentore attorale e presenza costante in ogni pellicola girata fino a quel momento.

I moltissimi cultori del suo cinema non dovrebbero storcere il naso (come i più hanno fatto al sentire la notizia dello strano connubio tra un autore anomalo quale Larraín e un tema apparentemente a lui poco congeniale quale il breve spaccato di biografia di una delle icone più discusse e misteriose del secolo scorso). Le distanze sono infatti meno siderali di quanto si potrebbe pensare. Tutt’altro. Soprattutto se si interpreta questo biopic fuori dalle regole come un ulteriore contributo all’insistita riflessione sulla grande Storia e sugli individui che ne creano il divenire da lui portata avanti proprio nei due già citati titoli di No – I giorni dell’arcobaleno e Neruda.

Come accaduto in quelle ma anche in altre sue pellicole, anche qui l’interesse di Larraín non ruota intorno a una nuova inchiesta-verità sull’assassinio di Kennedy o sulle più o meno oscure motivazioni che portarono i mandanti ad armare gli esecutori materiali del massacro di Dallas. Né tanto meno sull’ennesima illustrazione agiografica di un’icona femminile imbalsamata dalla mitopoietica del secolo scorso come simbolo di tutto ciò che può rendere unica una donna di successo (la quasi sconosciuta Jacqueline Lee Bouvier che, rampolla di una famiglia di commercianti di origini franco-olandesi arricchitisi fin dai tempi in cui New York si chiamava ancora New Amsterdam, laureata in letteratura francese, giornalista a «Vogue» e al «Washington Times-Herald», esperta di moda con lunghi soggiorni a Parigi e poliglotta, sposa l’uomo più potente e ammirato del pianeta divenendo ben presto il perno motore di quella Camelot fiabesca che il clan Kennedy edificò sul nulla per glorificare la propria leggenda).

Al regista cileno ciò che sta a cuore è tutt’altro. Lasciando che il suo monologo di fronte all’impassibile sparring partner (qui chiamato solo e sempre «il Gionalista» senza mai fare il nome di White) si alterni a rievocazioni sia delle fasi più concitate susseguenti il martirio di JFK ormai consegnate alla Storia che di momenti più raccolti in cui la first lady trasforma la propria immagine di signorina bene in quel simbolo incrollabile e intoccabile di regina del gusto e della moda poi riconosciuto da almeno due generazioni successive alla sua, il film consegna allo spettatore il ritratto complesso di ciò che sta dietro a quell’immagine un po’ imbalsamata e statica da santino laico creata dall’agiografia di Stato col preciso intento di regalare al popolo americano un’eroina in tailleur Chanel su cui piangere l’innocenza perduta di un intero paese.

E cioè l’identikit di una vera protagonista della modernità. Anche se piagata nell’anima dalla devastazione di una morte come quella toccata al marito e costretta a reagire a quello shock con decoro regale per salvaguardare il benessere interiore dei due figli piccoli ma anche a difendersi dall’atteggiamento del cognato Bob e di altri membri del clan Kennedy decisi a emarginarla dalla politica relegandola alle gramaglie della vedova eterna, la Jacqueline del film di Larraín è invece una sintesi perfetta di modernità in costante rincorsa di se stessa e di accorta gestione di un’immagine di sé da convertire in simbolo.

Consapevole di dover creare una leggenda partendo dal canovaccio ancora un po’ sfocato della vita di un uomo che fino ad allora non aveva ancora fatto nulla di veramente memorabile ma in cui l’umanità intera riponeva speranze di distensione nel clima teso della Guerra Fredda che regnava ovunque, la Jackie del regista cileno intuisce con incredibile sagacia il legame indissolubile che sussiste tra i mezzi di comunicazione di massa e il loro utilizzo per meri scopi di manipolazione politica. Per questo concede quella celebre intervista in un momento tanto drammatico come i giorni successivi al bagno di sangue di Dallas. Era quello il vero scopo dello scoop che «Life» aveva creduto di essersi garantito senza però aver forse compreso appieno l’autentica ragione per cui una devastata vedova di Stato volesse fornire all’America la propria versione di giorni destinati a modificare la percezione della Storia e il suo contorto evolversi condizionato dall’azione dei singoli.

Per questo, mentre rievoca quei giorni che hanno preceduto l’intervista, Jackie non tralascia nemmeno il più insignificante dei dettagli: ricorda il tailleur rosa con gli schizzi di sangue del marito sulla gonna tenuto addosso per 24 ore affinché tutti vedessero coi propri occhi «cosa gli avevano fatto»; e per la stessa ragione ricorda i funerali di Stato da lei organizzati sulla scorta di quelli di Abraham Lincoln, quando in barba ai protocolli di sicurezza che lo impedivano impone di poter accompagnare a piedi il feretro del marito tenendo per mano i due figli piccoli. Il tutto non solo per spettacolarizzare l’immagine del proprio dolore ma soprattutto per cristallizzare negli occhi di tutti la centralità del proprio essere la regina indiscussa di un sogno stroncato sul nascere.

E a conferma di questa sua capacità di prevedere il peso che il mezzo televisivo avrebbe avuto nella conversione della leggenda in realtà (percorso di mitopoietica già tipico dell’universo del West e della sua epopea e poi più in generale responsabile della creazione del cosiddetto Sogno Americano), alle sequenze che rievocano questi momenti decisivi della via crucis di Jaqueline Bouvier nel post mortem di JFK il regista cileno alterna spezzoni (da lui stesso rifatti in un magnifico bianco e nero con una vecchia macchina da presa di fine anni ’70) di un documentario trasmesso nel 1962 dalla TV americana — A Tour of the White House with Ms Kennedy — nel quale un’impacciata ma sorniona Jacqueline faceva da cicerona in un fino ad allora inedito viaggio nei penetrali della Casa Bianca alla scoperta dei molti ambienti che lei stessa aveva preteso venissero ammodernati nel momento in cui vi aveva messo piede come inquilina di lusso

Lento e compassato per allinearsi a questo percorso di creazione progressiva di un mito – tanto del marito quanto soprattutto di se stessa –  ma non per questo meno apprezzato a Venezia (dove allo script di Oppenheim è andato il premio come miglior sceneggiatura in concorso), Jackie regala a una magnetica Natalie Portman in odore di Oscar l’occasione di disegnare il ritratto di una donna nata, cresciuta e vissuta nel privilegio ma scaraventata suo malgrado  dalla violenza della Vita sul palcoscenico della grande Storia come una sorta di dimidiata eroina scespiriana. Capace però di sfruttare appieno questo corto circuito fortuito per trasformare un dolore inesprimibile in una celebrazione iconica di sé sospesa tra lo sfruttamento della suggestione popolare e l’insostenibile leggerezza dei miti consegnati dai «grandi» all’immaginario collettivo.

Trama

A dieci giorni di distanza dall’assassinio di John Kennedy, un giornalista della rivista «Life» ottiene un’intervista esclusiva con la vedova del Presidente, l’affascinante Jacqueline Lee Bouvier, nel corso della quale la ricostruzione dei momenti più drammatici susseguenti agli spari al marito le permettono di (ri)collocare se stessa all’interno di un ritratto in parte già imbevuto di elementi favolistici di una famiglia capace di ammaliare un paese e il resto del mondo col fascino costruito a tavolino di un progressismo liberal alimentato da sagace marketing dell’immagine.


di Guido Reverdito
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