Io, Daniel Blake

Il prologo è uno schermo nero sul quale scorrono i titoli di testa. Su quel fondale buio due voci si fronteggiano, ma è un dialogo tra sordi: la voce dell’uomo  è via via più insofferente verso le domande, insensate o peggio ingannevoli, che una giovane donna formula come un mantra da un questionario standardizzato (assessment è il termine più ricorrente). Eppure, si capisce subito,  è un’intervista molto importante per l’uomo e la sua vita futura, dovendo accertare più che il suo vero stato di salute la sua capacità di lavorare e dunque la conferma o meno dei  sussidi statali che riceve.

Quell’uomo, che per la burocrazia britannica è  certo solo un numero di matricola con una cifra accanto, si chiama Daniel Blake.  Falegname di 59 anni, vedovo, di Newcastle, Nord-Est dell’Inghilterra,  assente per malattia dalla sua ditta dopo un attacco di cuore; il medico specialista gli proibisce di tornare al lavoro, ma per lo Stato (in virtù di un numero, lo score del famoso assessment…),  è tornato “abile”, ma per un altro lavoro, meno specializzato, che deve impegnarsi a cercare (e dimostrare di farlo) per almeno 35 ore a settimana, pena le sanzioni continuamente minacciate dagli uffici, ovvero la perdita parziale o totale di ogni reddito.

Dicono sia “a free world”, ma  a questo mondo nulla sembra più davvero libero, né tantomeno gratis. Ci mette in guardia, da tempo e ostinatamente, Ken Loach, 80 anni lo scorso giugno (Cannes aveva anticipato di pochi giorni gli auguri premiando il film con la seconda Palma d’oro dopo quella, dieci anni prima, per “Il vento che accarezza l’erba”). Protestare, sbagliare le risposte di un formulario, persino ammalarsi, può costare oggi assai caro. Le storie di Daniel e Katie, giovane madre single con due bambini a carico, protagonisti del film n. 25 (esclusi i lavori per la TV e i corti) del regista inglese rispecchiano processi socio-economici noti da tempo, non solo nel Regno Unito, e assai chiari nella  loro semplice crudezza: l’espulsione dei più deboli e dei meno allineati dai ‘mercati’, quello lavorativo come quello abitativo (di fatto, una politica di “pulizia sociale” che la Brexit, temiamo, potrà solo amplificare). Questi processi non distinguono ormai quasi più tra giovani e  anziani, ma questi ultimi, si sa, sono le persone più indifese e con minori possibilità di reagire o di “re-inventarsi”. La tecnologia poi, per gli over 50, spesso peggiora il quadro: Daniel ha sempre lavorato con le mani,  e, come vediamo per buona parte del film, con le mani sa creare ed aggiustare ogni cosa (per istintiva solidarietà e per sentirsi di nuovo utile aiuterà Katie a rimettere in sesto il suo nuovo appartamento). Ma, come terrà a precisare, “non sono  mai stato vicino a un computer in vita mia”. Peccato (per lui e per tanti come lui) che oggi nel Regno Unito (ma è un trend di certo globale) la “dematerializzazione” preveda solo moduli da compilare on line…

I, Daniel Blake è stato definito, a ragione,  “quintessential Loach”. Il regista, dopo qualche recente prova non del tutto convincente, ritorna alle fonti di ispirazione più ricche e forse più autentiche della sua opera:  l’attenzione al lavoro come pilastro su cui si fonda l’identità pubblica e privata di uomini e donne, ma anche il tema del rapporto conflittuale tra individuo e potere, sia esso aziendale o statuale. E il film segna addirittura un ritorno alle origini quando con Cathy Come Home – docudrama televisivo targato BBC che ebbe grande e duraturo successo in patria – Loach iniziò  la sua lunga e irripetibile carriera:  correva l’anno 1966, giusto mezzo secolo fa, e quel tv play raccontava le vicissitudini di una coppia: lui perdeva il lavoro, lei incinta doveva lasciare l’appartamento e finiva per diventare una senzatetto.

Ma il film,  aggiungiamo, è anche “quintessential Laverty”, il suo fidato e insostituibile sceneggiatore da circa 20 anni. Per trovare le storie da raccontare, Paul Laverty e Ken Loach sono andati a Neneaton, la cittadina dell’Inghilterra centrale dove il regista, figlio di operai, è nato e cresciuto. Lì hanno incontrato diverse realtà di volontari che aiutano i sempre più numerosi homeless, gli operatori dei tanti “banchi alimentari” (vi è ambientata una delle più dure ed emozionanti sequenze del film), e tante persone, di variè età, intrappolate dei famigerati “zero hours contracts” inglesi; hanno raccolto anche diverse testimonianze (anonime per paura di ritorsioni) tra i dipendenti degli uffici pubblici preposti alle famigerate  “sanzioni”. E’ da queste storie reali che nascono i personaggi “di finzione” di Dan – Dave Johns, un attor comico qua alla sua prima straordinaria interpretazione drammatica –  e di Katie, la giovane Hayley Squires nella sua  prima e riuscita prova importante.

“First things first”, dicono gli inglesi. Di cibo, di un tetto, del riscaldamento, le prime e ultime cose  che fondano  la dignità degli esseri umani parla il film,  con una sceneggiatura essenziale e implacabile (solo le figure dei giovani vicini di casa e l’eterna passione per il calcio riescono qua e là ad allentare la tensione drammatica), che lavora per continue ellissi temporali, a scandire, in un montaggio sempre fluido,  attraverso gesti e accadimenti a volte anche minimi, la lotta, la speranza, la disillusione, infine la discesa nella depressione di Daniel.

Certo, lo scenario del mondo esterno è assai cambiato dagli altri film di Loach che affrontano direttamente i temi del lavoro: ogni traccia di solidarietà è scomparsa, insieme ai cosiddetti “corpi intermedi” (chiesa, partiti, sindacati, resta appunto solo il volontariato). Anche a casa non ci sono più padri con cui sfogarsi , o mogli che possono capirti, e sicuramente nessun angelo custode arriverà (come faceva il vero  Eric Cantona ne “Il mio amico Eric”, 2007) a sostenerci. Soprattutto, non sono più immaginabili quei gesti collettivi capaci di spiazzare e a volte persino di cambiare il corso delle cose. A Daniel Blake resterà solo l’effimera soddisfazione di un gesto di protesta,  tanto isolato quanto disperato.

Eppure, proprio nel finale,  Ken Loach saprà regalarci da par suo un’ultimo guizzo, quello che renderà indimenticabile nella memoria di noi spettatori  anche Daniel, come già Carla, Joe, Eric, Paul, Mick… e tanti altri.

TRAMA

Il cinquantanovenne Daniel Blake di Newcastle fa il falegname da sempre. Per la prima volta nella sua vita, però, ha bisogno dell’aiuto dello Stato. Daniel conosce Katie, madre single con due bambini piccoli, Daisy e Dylan. Per Katie, l’unica possibilità di sfuggire alla vita in una camera di un ostello londinese per senzatetto è quella di accettare un appartamento in una città che non conosce, a cinquecento chilometri di distanza da Londra. Daniel e Katie si trovano in una terra di nessuno, prigionieri del soffocante sistema burocratico che caratterizza il sistema sociale inglese e della retorica dell’Inghilterra contemporanea, che vuole la popolazione divisa in chi lavora duro e chi sfrutta i sussidi statali pur di non lavorare.


di Sergio Di Giorgi
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