Io capitano

La recensione di Io capitano, di Matteo Garrone, a cura di Pedro Armocida.

Io Capitano di Matteo Garrone finisce dove praticamente iniziava Mediterranea di Jonas Carpignano (2015) in un dittico tanto suggestivo quanto eterogeneo. Il cineasta romano sceglie di raccontare il controcampo del suo primo corto del 1995, Silhouette, confluito l’anno dopo nel suo primo lungo Terra di mezzo.

E lo fa nella maniera più onesta e per lui più autentica seguendo il viaggio di formazione, un road movie adolescenziale, in versione picaresca (ma senza che i protagonisti compiano azioni riprovevoli per sopravvivere), dei due protagonisti, dal Senegal alle coste italiane.

Le stazioni di questa contemporanea via Crucis, di questa Odissea, ci sono tutte ma la loro descrizione non ha niente a che vedere con qualcosa di somigliante al cinema del reale ma utilizza il mito, la favola, per raccontare una storia universale. Di chi sogna di poter giocare alla vita lasciando la propria casa. Un percorso che può essere associato, nel film, a quello di Pinocchio (ecco che torna la collaborazione di Massimo Ceccherini alla sceneggiatura con l’apporto di Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri) che Garrone ha già incontrato nella sua filmografia tanto più che aveva sempre sognato di realizzare un Pinocchio nero.

Riferimenti giusti, corretti, da analisi puntuale, pensata e meditata.

Ma la sorpresa è che Io Capitano non si presta tanto a tutto ciò. Qui l’aspetto sensuale, tattile, immaginifico assume il controllo pieno del film. E si fa cinema. Lo sguardo dello spettatore coincide con quello del protagonista. Con il suo viaggio iniziatico, fantasmatico, allucinatorio e scarnificato dagli strati di geopolitica più complessa. Per tornare all’uomo e alla sua parabola. Che sa anche di morte, trasfigurata, ma che, come la giovinezza, motore di scoperta dei due protagonisti, è pur sempre l’inizio della vita.


di Pedro Armocida
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