Inferno

Il rapporto tra Dan Brown e il cinema rimane più che “buono”: anche questa volta è tra i produttori di un film tratto da un suo romanzo, nonostante nelle prime due trasposizioni dei suoi libri i risultati ottenuti non si possano definire eccellenti. Parliamo della qualità narrativa, non certo degli incassi che sono stati particolarmente interessanti tanto da fare accettare alla Sony, e ai suoi partner, un vero salasso per pagare i diritti allo scrittore per questo terzo titolo.  E anche in questo caso, la chiave di lettura passa attraverso l’arte, la cultura che i nostri progenitori ci hanno donato.

Ne Il codice da Vinci (The Da Vinci Code, 2006) tutto si basava su Leonardo ed era ambientato a Parigi soprattutto all’interno del Louvre, in Angeli e demoni (Angels & Demons, 2009) l’elemento fondamentale è dato da opere di Gianlorenzo Bernini (membro degli Illuminati). In questo secondo caso, lo scritto di Brown è stato rivoluzionato spostando l’azione dal CERN di Ginevra al Vaticano, con un risultato finale mediocre e caotico. Del film, più che lo sviluppo narrativo, si ricorda infatti la ricostruzione perfetta di parte di Piazza San Pietro.

In Inferno c’è sicuramente maggiore rispetto per il romanzo, ma la sensazione è di essere di fronte a un prodotto ad alto budget (oltre 70 milioni di dollari) che guarda unicamente a una certa spettacolarità dimenticandosi di dare importanza al mondo onirico, allo scontro tra reale e fantasia, quest’ultimo fattore ridotto a scene poco interessanti scritte senza preoccuparsi di essere particolarmente credibili.

La maschera post mortem di Dante Alighieri e l’illustrazione dei nove cerchi dell’Inferno fatta da Sandro Botticelli servono per risolvere il caso. Così a tratti, si giunge al ridicolo con scene offensive, ad esempio, per le autorità museali italiane. La maschera è in una bacheca in cui, durante un furto, non suona alcun allarme.  La custode (che chiama i colleghi suonando un fischietto) è una donna incinta che partorisce il giorno dopo, i sistemi di controllo per il pubblico sono sconfortanti, il passaggio dai Giardini di Boboli a Palazzo Pitti è lasciato aperto e da questo Museo è possibile fuggire utilizzando una finestrella chiusa con un chiavistello che porta subito fuori, davanti all’ingresso principale.  Nel Battistero di San Giovanni, chiuso per lavori, si entra senza nessuna difficoltà perché non ci sono né custodi né sistemi di sicurezza.
Tantissimi altri punti della sceneggiatura risultano poco funzionali, e a questo si deve aggiungere un certo pressappochismo nella costruzione sia degli ambienti (Budapest ‘truccata’ è più volte riconoscibile) che delle situazioni.

Per fortuna che Firenze, il suo fascino, la sua bellezza forniscono il collante per tenere insieme il film. Gli splendidi e incombenti affreschi del Vasari creano paura, tensione, preoccupazione ma ogni altra cosa è perfetta per creare le giuste atmosfere ben rese dalle drammatiche luci del bravo Salvatore Totino.

Dietro a questo incredibile giocattolo c’è sempre il sessantaduenne Ron Howard che riesce a fornire una certa compattezza al tutto, ma che rinuncia a realizzare un film interessante, come ad esempio con Frost/Nixon – Il duello (Frost/Nixon, 2008).

Howard è innegabilmente un ottimo professionista in grado di realizzare qualsiasi tipo di prodotto e che nel commerciale ha saputo realizzare titoli interessanti quali, solo per citarne un paio, Apollo 13 (1995) e A Beautiful Mind (2001). Le major, in ogni caso, non vogliono rischiare e hanno messo a libro paga specialisti di effetti speciali, stuntman quasi più utilizzati degli attori. In questa maniera, difficilmente il pubblico non decreta grosso successo al box office.

L’atmosfera da film catastrofico è sempre presente, i protagonisti fuggono (alcuni fingono di fuggire) da un pericolo incombente che potrebbe eliminare metà della popolazione della Terra a causa del solito pazzoide (qui miliardario) che, pensando di aiutare l’Umanità, cerca di rendere il futuro più vivibile… eliminando tante bocche da sfamare.

Il protagonista dei romanzi e del film è Robert Langdon, professore presso l’Università di Harvard e stimato esperto internazionale di simbologia religiosa. Per seguire gli sviluppi delle ricerche, mette a repentaglio la sua vita e risulta poco sconvolto dalle varie morti che lo attorniano. Soprattutto nelle trasposizioni sul grande schermo, affronta prove fisiche (questa volta scala muri a mano libera) degni di un ventenne atletico, non certo di un cinquantenne con un po’ di pancetta.

L’interprete è Tom Hanks che rende il personaggio centrale  (divenuto famoso, come già detto, nei romanzi) in maniera più che valida, ma senza ottenere una simbiosi perfetta con lui: c’è un certo distacco d’attore, un prendere le distanze dal personaggio forse per evitare di cadere nel ridicolo in cui ogni cosa tende a volgere.

TRAMA

Robert Langdon è a Firenze e non ricorda più nulla rispetto a ciò che gli è capitato nell’ultimo periodo della sua vita. Si ritroverà al centro di un enigma che riguarda Dante Alighieri e l’Inferno


di Furio Fossati
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