Indiana Jones e il Quadrante del Destino
La recensione di Indiana Jones e il Quadrante del Destino, di James Mangold, a cura di Emanuele Rauco.
Il ticchettio di un orologio su cui si apre Indiana Jones e il Quadrante del Destino è inequivocabile: al centro del film diretto da James Mangold, a quindici anni di distanza dal quarto della serie, c’è il tempo, quello che scorre inesorabile, che in tanti hanno provato a riavvolgere o fermare, da Archimede in poi, senza apparentemente riuscirci. La questione, nel quinto film del franchise, il primo senza Steven Spielberg alla regia, è complessa e stratificata.
Perché nella sceneggiatura di Mangold, Jez e John-Henry Butterworth e David Koepp, il manufatto da ritrovare è il quadrante che da il titolo al film, un marchingegno fabbricato da Archimede che darebbe la possibilità di trovare i varchi spazio-temporali per viaggiare nel tempo. Il nostro Indy (sempre Harrison Ford) sarà coinvolto nell’avventura da Helena (Phoebe Waller-Bridge, perfetta), sua figlioccia, e insieme dovranno vedersela contro Jürgen Voller, un ex-gerarca nazista intenzionato a far tornare in auge il terzo Reich.
Il tempo non è solo quello del continuum da manomettere, ma è anche quello trascorso dal 1981 de I predatori dell’arca perduta e che pesa sui corpi degli attori superstiti, come pure in parte nello spirito dell’avventura (un protagonista sotto i 40 e uno sopra i 70 sono due cose parecchio diverse da raccontare) e come anche nello sguardo del pubblico, nella capacità di amare oggi un personaggio così; è quello il tempo che Mangold, produttori e sceneggiatori sfidano, quella della nostalgia, quello del passato che guardiamo sempre con troppa accondiscendenza, il tempo che separa Indy (e noi) dalla gioventù fatta di fortuna e gloria. È un’impresa disperata che proprio per questo merita rispetto, perché gioca in partenza con la sconfitta, un po’ come ha sempre fatto lo stesso Jones.
Al netto di questo coté teorico, Indiana Jones e il Quadrante del Destino sa far valere le sue carte, sfodera sequenze d’azione ottimamente ideate e realizzate (il bel prologo nel ’45, con Ford ringiovanito digitalmente e un forsennato inseguimento in treno; l’inseguimento a Tangeri che pare uscito dal Tintin del 2011), rispetta lo spirito della serie, almeno fino al molto discutibile finale, e usa la CGI in modo più equilibrato e riuscito rispetto all’odiato quarto film (Il regno del teschio di cristallo). Se si comprende che Mangold non può essere Spielberg e che il direttore della fotografia Phedon Papamichael non è il Douglas Slocombe della trilogia primigenia, il luna park Lucasfilm è in grado di divertire parecchio.
di Emanuele Rauco