In grazia di Dio

In grazia di Dio che giunge in questi giorni nelle sale  (dopo essere stato  selezionato a  Berlino,  sezione “Panorama”) offre forse allo spettatore il punto più alto  di maturazione del cinema di Edoardo Winspeare (classe 1965). Una filmografia in fondo scarna, appena 7 titoli  in quasi 20 anni (a partire da Pizzicata,  1996, e compreso il bellissimo documentario Sotto il Celio azzurro), ma un percorso assai peculiare, se non unico, nel panorama nostrano. E non a caso. Ben oltre il dato anagrafico, Winspeare porta dentro di sé la ricchezza dei miscugli – del sangue, delle culture, delle esperienze:  padre di antica stirpe inglese, poi trapiantata nel Regno di Napoli, madre austroungarica;  una formazione cosmopolita ma poi una scelta di vita apparentemente periferica, il Salento del piccolo paese di Depressa, per restare vicino alla natura, alle piccole storie quotidiane, alla rete fortemente identitaria di relazioni sociali, professionali, e affettive, in primo luogo  il sodalizio con la moglie Celeste Casciaro, salentina doc, bravissima e imprescindibile protagonista di questo nuovo film (al quale ha anche fornito un ampio repertorio di memorie familiari).

In grazia di Dio compendia dunque, a nostro avviso, i punti di forza (e forse anche i limiti) di una poetica cinematografica fondata sempre sul realismo, ma al tempo stesso attratta da tutto ciò che appartiene all’arcaico e al soprannaturale (i rituali e le credenze, popolari e religiose, ivi compresi il demoniaco e il miracoloso). Dopo aver incrociato e mescolato diverse forme e generi, dal melodramma a sfondo storico al documento antropologico, dal   film d’azione al noir, qua il regista affronta una sfida molto più complessa sul piano narrativo. Le vicende compongono infatti un articolato dramma familiare (con a tratti vira anche in commedia, lo dimostrano diverse battute dei dialoghi accolte dalle risate degli spettatori), affollato da personaggi, in specie femminili, ritratti a tutto tondo. L’ispirazione trae origine dalla triste cronaca socio-economica del Mezzogiorno, ma  trasfigurata in una narrazione antica, quasi mitologica, immersa in una natura selvaggia, solare e passionale, uno scenario da “Arcadia” contemporanea, pieno di contraddizioni e  assai poco idilliaco.

Del resto, siamo nel finis terrae del Capo di Leuca.  La costa greca si scorge persino all’orizzonte. Da essa arrivano musiche sommesse e  i venti della crisi, anche se la colpa non è della Grecia ma della concorrenza cinese che ha sbaragliato in pochi anni l’economia dei “fasonisti”, terzisti per l’industria dell’abbigliamento del Nord. L’azienda familiare – retta da Adele (Celeste Casciaro) e dal fratello Vito – è stretta nella duplice morsa di Equitalia e delle finanziarie usuraie. L’unica soluzione sarà svendere la casa in paese e rifugiarsi nella vecchia casa di campagna, da rimettere in sesto, per poi riconvertirsi, coltivando la terra, riscoprendo il baratto e una identità contadina perduta, o magari solo rimossa. Su questo difficile sfondo sociale ed economico e attorno al recupero di  questa identità si scontrano quattro generazioni di donne: la nonna matriarca (Anna Boccadamo), l’unica a non aver voluto abbandonare la terra, e che nella terra, a 65 anni,  riscopre anche l’amore;  la figlia maggiore Adele, una donna forte e sola, ormai disillusa su tutto, specie appunto sull’amore, ma che accetta la nuova sfida e si opporrà, insieme alla madre, alle lusinghe di chi vorrebbe comprare da loro anche quella terra, resa di nuovo fertile; la  sorella più giovane Maria Concetta (Barbara De Matteis), sin da bambina operaia nella fabbrica, ma che spera di fuggirne attraverso la passione del  teatro e il sogno del cinema (il provino con Ozpetek, ovviamente, assiduo frequentatore di quei set); infine, la giovane e bella figlia di Adele, Ina (Laura Licchetta), che spreca i suoi giorni insieme ai maschi balordi del paese, ma si dimostrerà più forte di quanto appaia.  E se gli uomini di casa –  in carcere come l’ex marito di Adele e padre di Ina o costretti ad emigrare come il fratello Vito – restano ai margini del quadro,  altri uomini riemergono dal passato per proporsi in maniera diversa,  in nome di un amore antico e “resistente”.

Winspeare e il co-sceneggiatore Alessandro Valenti maneggiano abilmente il plot e le vicende dei numerosi personaggi (anche se qualche snodo narrativo appare un po’ forzato o prevedibile). Ma dove il regista mostra ancora più coraggio, oltre che talento (e non certo per la prima volta), è nelle scelte stilistiche che sorreggono la narrazione. Tra queste scelte coraggiose ricordiamo, in ordine sparso: aver rinunciato (per un regista che della musica aveva fatto parte costitutiva del suo cinema, in collaborazione con il gruppo  Officine Zoè) al tessuto musicale, affidato ai suoni (affascinanti) della natura salentina;  il progressivo passaggio dai chiaroscuri iniziali (le scene  dentro la finanziaria o in appartamento) alla luce sempre più possente e invasiva degli esterni (sino a girare  sempre con “luce in macchina”, dunque in controsole abbacinante, inquadrature da campo/controcampo);  la cura in prima persona del casting (ancora una volta molto azzeccato) di attori non professionisti; la capacità di affidare a essi dialoghi improvvisati o di accogliere elementi imprevisti di realtà (processioni, donne in preghiera en plein air). Parimenti coraggiosa (ma in fondo  consueta per Winspeare)  è la dimensione produttiva decisamente low-cost, che risolve i tipici vincoli in opportunità. Questa volta, prima dell’intervento di Rai Cinema, oltre al sostegno della Apulia Film Commission, era riuscito a coinvolgere (come dimostrano i titoli di coda) una miriade di piccoli sponsor locali, per product placement “a chilometro zero” e forme di “baratto” con servizi offerti (persino da uno studio dentistico) all’intera troupe.

In questi 20 anni, forte del suo radicamento territoriale, il cinema di Edoardo Winspeare è riuscito ad essere compreso ed apprezzato in tante parti del mondo. Forse è giunto, anche per lui, il momento di accettare altre sfide. Incontrando il pubblico giorni fa al cinema Anteo di Milano,  ha annunciato che il suo prossimo film sarà girato in Alto Adige e in lingua tedesca.  Pur a diverse latitudini, parlerà ancora dell’incontro-scontro tra le culture.

TRAMA

 

Nel Salento di oggi, quattro donne si rifugiano in campagna in seguito al fallimento della piccola impresa a conduzione familiare, travolta dalla generale crisi economica. Il lavoro della terra e il baratto dei prodotti – contro ogni aspettativa – sono l’occasione per un nuovo inizio, la possibilità di una nuova vita.

 


di Sergio Di Giorgi
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