Il teorema di Margherita

La recensione di Il teorema di Margherita, di Anna Novion, a cura di Guido Reverdito.

La Margherita del titolo è un genio assoluto (parzialmente compreso) della matematica. Brillante dottoranda alla Scuola Normale Superiore di Parigi, vede crollare tutto il mondo di certezze granitiche su cui ha puntellato i venticinque anni della sua giovane vita quando – nel giorno in cui deve illustrare per la prima volta a una pletora di luminari della materia il risultato della sua ricerca -, un collega appena arrivato da Oxford le fa rilevare un’imprecisione che invalida tutta la sua dimostrazione della congettura di Goldbach. Ovvero uno dei più grossi e irrisolti rompicapi di sempre nella teoria dei numeri.

Da quel momento in poi tutto precipita: persi la borsa di studio, lo status di genio ma anche l’ambizione e l’autostima, Margherita abbandona l’università e la matematica e decide di tuffarsi in quello che le è mancato fino a quel momento. Cioè nei vortici della Vita vera. Che nella fattispecie assumono le fattezze della convivenza con una bizzarra coinquilina ballerina, la (ri)scoperta del sesso, e la conferma che i numeri non sono destinati solo a riempire immense lavagne per dimostrazioni astruse, ma possono venire utili per sbarcare il lunario (come fa appunto lei guadagnandosi da vivere in bische illegali di majhong dove sbanca gli avversari proprio grazie a quegli stessi numeri che l’hanno da poco tradita).

Presentato allo scorso Festival di Cannes nella sezione “Special Screening” e con all’attivo un César come migliore attrice esordiente all’elvetica Ella Rumf (già vista e apprezzata in Raw di Julia Ducournau e nella serie TV Tokyo Vice), questo secondo film della regista e sceneggiatrice franco-svedese Anna Novion rientra a pieno titolo nella categoria dei cosiddetti film coming to age, qui adeguatamente addizionata nei suoi canoni tradizionali dalle non meno standardizzate note del cinema che indaga sul rapporto tra genio e follia (roba tipo A beautiful Mind e di The Imitation Game, giusto per citare due titoli di un filone ormai assai ricco) .

Anche se nel caso presente la crescita della protagonista non ha nulla a che fare con un percorso anagrafico, ma è di fatto una sorta di educazione alla normalità di un soggetto borderline che riscopre i valori veri dell’esistenza. Un soggetto in bilico costante tra i fantasmi del fallimento e le aspettative di un futuro tutto da scrivere che, proprio quando pensa di aver abdicato al proprio passato, anche grazie al fatto che il dottorando responsabile della sua crisi esistenziale diventa prima un prezioso alleato e poi l’amore corrisposto, trova finalmente il giusto equilibrio tra la freddezza algida dei numeri e l’ispirazione alimentata dalla forza del sentimento.

Senza mai lasciarsi ingabbiare dai ricatti del genere cui appartiene ma ugualmente senza deragliare in maniera troppo marcata da un procedere lineare verso un esito già più che prevedibile fin dall’inizio, in parte assecondando le mode del momento, Il teorema di Margherita ha il pregio di declinare al femminile un romanzo di formazione di solito appannaggio tipico dell’universo cinematografico maschile. Con un personaggio destinato a rimanere impresso nello spettatore per la capacità di arrivare al successo finale riuscendo a trovare dentro di sé gli strumenti emotivi per affrancarsi da una bolla protettiva trasformatasi in trappola da rifugio che era.


di Guido Reverdito
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