Il sale della Terra
Già presentato e apprezzato a Cannes, l’ultimo lavoro di Wenders è arrivato anche nelle sale italiane, dopo essere stato proiettato al MAXXI nell’ambito del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Wired Next Cinema, che ha ospitato anche un incontro con il regista moderato da Mario Sesti. Wenders ha parlato, in questa occasione, anche del suo speciale rapporto con la fotografia, che come è noto occupa un posto di rilievo all’interno del suo lungo e ricco percorso creativo: pensiamo a Palermo Shooting (2008), (auto)riflessione sulla vita di un fotografo, e anche – esempio forse ancor più calzante – al progetto Immagini dal pianeta terra, grandiosa e suggestiva mostra di fotografie delle quali Wenders è autore, ospitata nel 2006 a Roma dalle Scuderie del Quirinale.
Ma stavolta il regista tedesco, con Il sale della terra, pone in atto un’operazione del tutto diversa, che consiste in un omaggio profondamente sentito, visivamente potente e affascinante, all’imponente opera del fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Un incontro, questo, in un certo senso imprescindibile, dovuto: siamo di fronte all’incrociarsi di due sguardi per così dire paralleli e complementari, ed è proprio dall’intima affinità tra l’occhio di Wenders e quello di Salgado che si origina l’estrema empatia con cui il regista descrive e racconta la vita avventurosa e le molte immagini (ora straordinarie, ora commoventi) del fotografo.
L’intento del regista non è, in questo caso, quello di portare avanti una analisi critica – che “vivisezioni” e indaghi un processo creativo – né una riflessione sul mezzo – cioè l’obiettivo che media tra realtà e rappresentazione della realtà, tra l’oggetto rappresentato e il soggetto che rappresenta – o meglio, se ciò accade, all’interno del documentario, è solo in minima parte. Tuttavia ciò non appare né un limite né, tanto meno, un difetto, quanto piuttosto una scelta di campo quasi radicale, voluta e difesa fino all’ultimo.
Si è accennato, peraltro, durante l’incontro all’Auditorium Parco della Musica, al rischio che le immagini di Salgado sembrano correre, quello cioè di essere estetizzanti finanche nella loro rappresentazione della sofferenza o del dolore: si potrebbe aprire il campo, procedendo in questa direzione, a una potenziale dissertazione entro cui bellezza e verità si pongono dialetticamente come elementi oppositivi. Ma il punto di vista di Wenders, come ha suggerito durante l’incontro e come a conti fatti il suo film conferma, supera questa ideale contraddizione, conciliandola nel momento in cui sceglie una discriminante del tutto differente, quella cioè della dignità. E le immagini di Salgado, ora maestose ora laceranti, possiedono sempre – oltre a una rara e innegabile potenza espressiva, che forse ha pochi eguali – un enorme rispetto per ciò che viene rappresentato, che spesso (trattandosi in gran parte di reportage di stampo sociale e umanitario, che documentano e denunciano) coincide con esempi drammatici di sofferenza, devastazione e disperazione.
Dalle zone desertiche del Sahel all’inferno del Ruanda, Salgado ha documentato con coraggio e ostinazione, attraverso lunghi e innumerevoli viaggi, alcune tra le maggiori tragedie umanitarie degli ultimi tempi. Mano a mano però il suo interesse si è spostato anche su altri campi: luoghi e popolazioni rimasti miracolosamente quasi incontaminati vengono ad esempio descritti e raccontanti nel progetto Genesi.
Insieme al lavoro di Sebastião Salgado, Wenders mette in scena però anche la sua vita familiare, soprattutto attraverso lo sguardo privato e coinvolto del figlio Juliano Salgado, coregista del film. In questo modo si alternano alle fotografie di Salgado immagini d’archivio e interviste, come quella fatta dal nipote al nonno (padre di Sebastião), che racconterà di un’immensa fazenda distrutta dalla siccità, che tuttavia tornerà infine a nuova vita proprio grazie al fotografo. Da un’idea della moglie Lelia nasce infatti il progetto di riforestazione della terra dove Sebastião era cresciuto: viene fondato l’Instituto Terra e ricreata la mata atlantica (la tipica foresta pluviale), piantando circa due milioni di alberi e ricreando così, a partire da zero, un perfetto ecosistema in circa dieci anni.
Il film si chiude su questa impresa incredibile e miracolosa con un congedo dolce e beneaugurante, attraverso immagini che esaltano e celebrano simbolicamente la rinascita in un possibile percorso di contrapposizione e riscatto rispetto alla drammaticità e durezza dell’esistere testimoniate dall’opera di Salgado stesso.
Trama
Il documentario ripercorre la vita e il lavoro del grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado, raccontando i suoi moltissimi viaggi in luoghi tragicamente devastati dalle guerre (come Ruanda ed Ex-Jugoslavia) oppure fascinosi e quasi inesplorati (Antartide, Amazzonia).
di Arianna Pagliara