Il ritorno di Cagliostro
Proviamo a sgombrare dal nostro angolo di riflessione, tutte quelle ombre che vogliono limitare Il ritorno di Cagliostro, all’interno di un non meglio imprecisato rapporto con la cinefilia, la citazione, la blasfemia, la rappresentazione ossessiva e primitiva di un mondo schematizzato da ogni benedetta/maledetta istituzione. Parlo di una prima sensazione, perché è indubbio che l’ultima pellicola dei siciliani Ciprì e Maresco, risulti, apparentemente, meno radicata in quel terrificante immaginario costituito dalla visione diretta e senza alcuna intermediazione, del corpo umano. Esso viene reso elemento istintivo e irrazionale, desolante riflesso di altrettanti luoghi arcaici, così come accadeva per la serie di Cinico Tv, Lo zio di Brooklyn, Totò che visse due volte. Il tutto, fatto concorrere in un gioco di rielaborazioni filosofiche e morali, sospese e sospinte oltre il limite dell’occhio umano.
Fuori dal fuori campo, dentro lo spazio della suscettibilità umana. La storia ci porta nella Palermo del 1947 quando i fratelli La Marca, ex costruttori di statue sacre, decidono di inaugurare dal nulla la casa di produzione cinematografica Trinacria, e produrre il loro più grande kolossal Il ritorno di Cagliostro, affidando la regia al maestro Pino Grisanti e la recitazione ad un divo ormai sul viale del tramonto, Erroll Douglas. La chiave di svolta per riportare una giusta comprensione del film, la si attua applicando allo stesso, un senso di svuotamento, quindi quell’implacabile gioco di sottrazione, per esprimere appunto, non tanto “l’apocalisse” (esplosione), quanto la sua prossima conseguenza (implosione). In questo caso ci troviamo di fronte ad una vera e propria parodia clownesca, spietata perché racconta di una sconfitta nata sin dall’inizio. Non solo perché Carmelo e Salvatore non sono del mestiere, ma perché le forze messe in gioco, non riescono a comunicare tra loro. Pensiamo ad esempio alle premesse che spingono i fratelli La Marca a produrre questo film, che hanno a che fare con l’occulto e l’alchimia piuttosto che all’idea fondante del cinema e dello spettacolo. O all’origine insana del maestro Pino Grisanti, burattino in mano alla mafia, o all’attore di grido, Erroll Douglas, che deve recitare con, è il caso di sottolinearlo, un “povero branco di animali”. Così facendo si perde quello che è il senso di una ipotetica e plausibile costruzione semantica del cinema, devastandola dall’interno.
Ad un tratto però (introduzione della figura del nano) tutto sembra riallinearsi, prendere il proprio posto, assumersi le proprie responsabilità. Morire per le proprie colpe. Arriviamo così al traguardo, che non è fine ma partenza. Cagliostro, uscito fuori scena dopo essersi buttato per principio di realtà artistica dalla finestra, durante le riprese del film, si ripresenta davanti a noi. Non come una parte dell’enciclopedia del cinema, o del libro delle barzellette, ma come rassegnato trascinarsi di una pratica che dal cinema si riflette nella realtà.
di Davide Zanza