Il resto della notte

La società multiculturale vissuta come un incubo, l’integrazione e i conflitti etnici che spaventano, tutto è già qui da tempo e purtroppo si è realizzato al ribasso, mettendo drammaticamente a fattor comune il pregiudizio, il sopruso come regola, la violenza quotidiana, l’infelicità. Il resto della nottedi Francesco Munzi racconta questa realtà come facendo un’autopsia, scegliendo il punto d’osservazione interno al fenomeno, cioè non lo sguardo di chi studia, analizza, giudica, magari decide provvedimenti o viceversa (come spesso è capitato) sceglie di lasciar correre, ma la pratica di chi quotidianamente sopravvive in un inferno quasi fosse la normalità. Nel film tutto è separato e mescolato insieme (il mondo dei benestanti e il mondo dei reietti non comunicano, eppure sono tenuti insieme da una linea sottile e permeabile, aggredita dalle stesse pulsioni, dalla stessa incertezza, dalla stessa disperazione). Le vittime e i carnefici convivono, senza innocenza e ragione, in una condizione umana dove tutti per motivi diversi vorrebbero essere altro e altrove.
I ricchi Boarin vivono in villa, segregati e infelici, illusi di condurre una vita normale, i romeni Ianut e Maria in un tugurio di ringhiera circondato da africani e non vedono l’ora di scappare, Marco il tossico si sposta di continuo tra un piccolo furto e una tirata di coca, una visita al figlio e una rissa, sempre alla ricerca di certe gocce “che lo fanno star bene” . E’ una ronde disperata e dal destino segnato, che si intreccia e si annoda sul gioco sottile di un’accusa di furto che poi si rivela essere vero: la borghese isterica e antipatica aveva ragione, mentre la romena sottomessa e dagli occhi dolci era una ladra e una spergiura. Ma la colpa e la ragione, il bene e il male, sono carte truccate di una realtà da tempo scivolata lungo un piano inclinato che non ammette riscatto.
Francesco Munzi, al secondo film dopo il notevolissimo Saimir, lascia da parte ogni tentazione sociologica e con la sua macchina da presa racconta fenomenologicamente eventi e comportamenti che si commentano da soli, dunque senza sottolineare espressivamente o emotivamente, semmai asciugando e sottraendo, con una drammaturgia forse troppo didascalica, che volutamente non sorprende ma certo inquieta. Evidente la lezione bressoniana, sia nel finale (con la carneficina in villa tenuta fuori campo e registrata solo sul volto terrorizzato del giovane superstite), sia nella registrazione quasi documentaristica, e a volte insostenibile, delle defaillances morali dei protagonisti (l’adulterio, il furto, la gelosia).
di Piero Spila