Il responsabile delle risorse umane

Qual è il legame misterioso che si stabilisce tra un individuo e il luogo in cui vive? Cosa significa avere delle radici? Perché si fugge dal posto in cui si è nati e si cerca disperatamente “l’altro”? E perché quando una persona riesce a trovare finalmente l’ambiente definitivo della sua esistenza è considerato sempre e comunque un corpo estraneo?
Domande a cui non è per nulla facile trovare una risposta e che servono a farci comprendere la complessità di un mondo in cui le visioni nazionalistiche, legate ai concetti di popolo e patria, divengono fortunatamente sempre più rare. Si, perché ciò che lega profondamente un essere umano a un luogo non è tanto la nascita quanto piuttosto la scelta. E’ la scelta a dare un senso; è la scelta consapevole che apre una prospettiva per il futuro. Tale aspetto dell’esistenza contemporanea è sviscerato in maniera chiara nel libro dello scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua Il responsabile delle risorse uname, pubblicato in Italia da Einaudi.
Ora giunge nel nostro paese la trasposizione cinematografica di Eran Riklis, il regista de La sposa siriana Il giardino di limoni.

Si tratta di un’opera dalla narrazione distesa e monocorde che si traforma con il passare dei minuti in un road-movie dai toni aspri e malinconici. In verità, la trovata alla base del plot non è poi così innovativa. Bisogna, infatti, riportare nel luogo natio una persona che è morta in un altro Paese e deve compiere questa azione un individuo che nulla sa di chi è deceduto. Oltretutto, la vicenda si svolge, per il personaggio principale, in una terra straniera e durante un inverno gelido e lunare.
Riklis cerca di dare un senso a questa operazione puntando su due elementi: la (ri)scoperta di sé, da parte del manager delle risorse umane israeliano che deve portare in patria il feretro di una lavoratrice rumena morta in Israele, e la dimensione filosofica del viaggio, della perdita totale di legami e radici che porta inevitabilmente alla catarsi ma anche alla “conoscenza dell’altro”. Tra episodi grotteschi e situazioni drammatiche, incontri assurdi e tempi dilatati, il protagonista compie un percorso fisico e umano che lo porterà a fare i conti con la sua stessa identità, con la sua sfera interiore.

Riklis ricicla numerosi stilemi del cinema russo/slavo; lo fa con intelligente puntualità ma anche con una ripetitività che verso la conclusione sfocia nella noia. Il regista cerca di connotare la sua opera anche attraverso la questione dello sguardo. Così, è possibile constatare una sorta di rimescolamento in chiave cinematografica di ogni stereotipo visuale possibile e immaginabile connesso alla rappresentazione scontata che gran parte della fotografia di reportage compie costantemente riguardo l’universo dell’Europa dell’Est. Alcune inquadrature, però, colgono nel segno, in special modo quando Riklis si concentra sul paesaggio, elemento, quest’ultimo, che diviene nell’architettura espressiva del regista israeliano la metafora di una condizione soggettiva priva (finalmente) di coordinate e certezze.
Da notare la presenza nel cast (anche se in un ruolo secondario) di una delle maggiori attrici di Israele: Gila Almagor.


di Maurizio G. De Bonis
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