Il regno d’inverno – Winter Sleep

Può una Palma d’Oro (o un qualunque altro premio internazionale) far diventare un film un capolavoro? A mio modesto avviso no. La prova di ciò è il lungometraggio del turco Nuri Bilge Ceylan : Il regno d’inverno – Winter Sleep.
Preceduto dal riconoscimento ricevuto sulla Croisette, da una fama di operazione autoriale fin troppo scontata e dalla pomposità della fonte di ispirazione cechoviana, questa prova cinematografica dalla durata inutilmente ipertrofica si è infine mostrata per ciò che veramente è: una pretenziosa costruzione filmica, molto ambiziosa e troppo rigida, con non pochi problemi strutturali.
Ma andiamo con ordine. La precedente fatica registica del cineasta turco era un lungometraggio di rara intensità estetica e formale. Sto parlando di C’era una volta in Anatolia, opera che oltre a manifestarsi come una sorta di giallo straniante riusciva a comunicare significativi valori espressivi proprio grazie alla raffigurazione di luoghi, paesaggi e ambientazioni, elementi che si innestavano in una struttura drammaturgica in cui certamente anche i dialoghi giocavano un ruolo fondamentale. Si trattava insomma, di un testo audiovisivo equilibrato, acuto, personale e per niente presuntuoso.
Per quel che riguarda invece Il regno d’inverno – Winter Sleep si avverte con chiarezza la volontà da parte dell’autore di voler inseguire il capolavoro a tutti i costi e di voler strabordare in un tipo di cinema troppo sterilmente costruito. I dialoghi tra i personaggi principali si susseguono in modo meccanico ed espongono uno dopo l’altro grandi temi esistenziali, questioni relazionali e psicologiche, tensioni umane, ragionamenti sui massimi sistemi. Poco importa, se dietro fa capolino Anton Čechov, anzi proprio il legame con l’inarrivabile scrittore russo rappresenta il punto più debole del film.
La sceneggiatura presenta notevoli difetti e incertezze, personaggi deboli e altri che inspiegabilmente escono dal racconto mentre la pesantezza delle lunghissime scene a due stronca una possibile crescita delle vicenda. Certo, Nury Bilge Ceylan tenta di collocare il suo film in una dimensione visuale di alto profilo, strutturando le estenuanti sequenze in interni grazie a inquadrature a volte strettissime e non convenzionali, ma l’impressione è quella di una iper-edificazione linguistica troppo carica e dunque, vacua.
I passaggi più toccanti di questo lungometraggio sono quelli in cui l’autore sposta la sua macchina da presa all’esterno, lasciando che sia la Turchia profonda a esprimere la sua dimensione arcaica e densa di alienazione (quasi sublime in tal senso è la terribile e inquietante scena della cattura del cavallo). Il paesaggio, da solo, finisce per comunicare tramite inquadrature non lunghissime e significanti ciò che invece dialoghi claustrofobici, quasi teatrali, e senza fine (che abbondano nel film) affastellano ossessivamente.
Il tentativo era chiaramente quello di fornire un alto spessore contenutistico e letterario al film in questione. Ma, pur sapendo di dire una banalità, devo ricordare che il cinema è il cinema. Non è letteratura e neanche teatro.
TRAMA
Aydin è un ex attore di teatro che si ritirato nei suoi possedimenti in Cappadocia. Qui gestisce un albergo ma continua la sua attività di intellettuale, scrivendo per un giornale locale e redigendo un libro sulla storia del Teatro turco. Con lui vivono la sorella e la giovane moglie, quest’ultima una donna frustrata e sofferente che vede come una prigione la sua condizione esistenziale.
di Maurizio G. De Bonis