Il racconto dei racconti – Tale of Tales
Giambattista Basile scrisse il suo Lo cunto de li cunti ovvero lo tratteniemento de’ peccerille tra il 1634 e il 1636. Anche se trascurata dagli studiosi almeno fino a metà del secolo scorso, questa preziosa raccolta di fiabe popolari scritte in dialetto napoletano arcaico fu la fonte di ispirazione primaria per i grandi autori di fiabe nordici (da Grimm ad Andersen passando per Perrault) che in secoli successivi ne saccheggiarono la ricchissima materia per rendere celebri personaggi e vicende divenute poi patrimonio dell’intera civiltà occidentale.
Quando, non molto tempo fa, si era diffusa la voce che Matteo Garrone – dopo i successi internazionali di critica e pubblico ottenuti con Gomorra e poi con Reality – aveva in cantiere una trasposizione al cinema del capolavoro di Basile con budget importante, cast internazionale, realizzazione in inglese e grande pirotecnia di effetti speciali, per molti si era trattata di una bufala figlia di un gossip degenere. Soprattutto per l’apparente incompatibilità tra un genere poco frequentato dalle nostre parti come il fantasy e un cinema saldamente ancorato nella realtà com’è quello del regista partenopeo.
E invece non saranno in pochi a rimanere stupefatti di fronte al miracolo di equilibrio che Garrone è riuscito a inventarsi nel calibrare le difficili istanze di una produzione internazionale con un’ancora più ardua scorribanda in un genere fin troppo popolare nel cinema mondiale degli ultimi dieci anni per permettere a chiunque libertà di movimento. Ma anche con un’opera ostica come il Pentamorone di Basile (questo l’altro titolo alternativo del capolavoro a conferma del suo debito strutturale nei confronti del Decameron boccaccesco), summa narrativa definita da Italo Calvino «il sogno di un deforme Shakespeare partenopeo» e tradotta in italiano corrente da Benedetto Croce che si inchinò di fronte al suo valore assoluto di spartiacque della modernità.
Delle cinquanta novelle di questo libro chiave nella storia del genere fantastico Garrone e la sua squadra di sceneggiatori (costituita da Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso) hanno scelto di trasporne tre: si tratta de La cerva fatata, Lo polece, e La vecchia scortecata, divenute rispettivamente La regina, La pulce e Le due vecchie. L’approccio è stato quello del rispetto filologico unito alla volontà di trovare possibili fili conduttori che creassero raccordi narrativi praticabili tra tre vicende che all’apparenza hanno poco a che spartire ma che, una volta incardinate a dovere in una struttura a incastro, regalano un’immagine di armoniosa coerenza globale.
E questi fili Garrone li ha trovati in una sorprendente congiunzione di lune tra le caratteristiche tipiche del suo cinema (la trasformazione del corpo portata fino all’ossessione, la passione che acceca la mente portandola a gesti estremi ma anche l’inganno come strumento tipico dei rapporti tra gli umani) e i temi portanti delle tre vicende prese di peso dal testo di Basile e riadattate alla bisogna. Ovvero il potere dell’amore in tutte le sue declinazioni e distorsioni possibili, ma soprattutto la forza a tratti quasi demoniaca che hanno le donne di determinare il corso delle cose arrivando persino a sovrapporsi ai capricci del destino e a opporsi con grinta e determinazione allo strapotere del maschio.
Tutte caratteristiche di contenuti e strutture che il cinema di Garrone ha percorso in lungo e in largo fino a oggi imponendole come un marchio di fabbrica che ha conquistato critica e pubblico. Basti infatti pensare alla zoofilia mostruosa de L’imbalsamatore o ai dialoghi del protagonista di Reality con la cimice/grillo parlante, alla scarnificazione del corpo in Primo amore (qui ribadita nella scorticazione di una delle vecchie nel terzo episodio), o addirittura alla gestione di vicende parallele che si intersecano sfiorandosi senza però mai diventare veri racconti corali (come accade in Gomorra e com’è qui puntualmente ribadito).
Girato in inglese per la presenza di un prestigioso cast internazionale (che allinea star del calibro di Salma Hayek, Vincent Cassel, John C. Reilly, Toby Jones e un nutrito manipolo di volti noti presi di peso dalla saga cinematografica di Harry Potter), questo fastoso affresco in costume sfrutta la struttura e le tematiche tipiche della fiaba sospesa nel suo limbo atemporale per parlare di alcune ossessioni che agitano il nostro oggi. Ed ecco così l’ansia dell’invecchiamento combattuta col ricorso alla chirurgia, il desiderio della maternità voluta a tutti i costi, l’infanzia negata, l’autoritarismo genitoriale e le sue conseguenze, le smanie carnali alimentate dal potere dell’autosuggestione ma anche quelle del viaggio e dell’affermazione egoistica di se stessi.
Sospeso a metà tra il fantasy e l’horror senza però mai dimenticare le pulsioni tipiche del cinema d’autore, il film di Garrone è anche una lezione spiazzante su come si possa reinventare un genere usandone tutti gli stilemi tipici. Dopo anni di indigeste rimasticazioni di mondi di cartapesta per bambini cresciuti poco e male (vedansi le varie e sopravvalutatissime melensaggini dell’osannato Peter Jakcson così come la paccottiglia per bambini del già citato maghetto della Rowling o il ciarpame non meno infantile de Il trono di spade), ma anche fiacchi tentativi di rivitalizzare il mondo della fiaba attualizzandolo con gli artifici del computer (e qui non si può non citare Maleficent, le due Cenerentole, il recente Into the Woods), l’italianissimo Matteo Garrone realizza un miracolo raro: e cioè ridare verità alla fiaba lasciando che racconti il pulsare autentico della vita con la presunta falsità dei suoi mondi sospesi in universi paralleli al nostro.
Un approccio questo ribadito anche dal rifiuto quasi programmatico di ricorrere agli artifici della moderna tecnologia. Garrone esige che la fiaba racconti la realtà procedendo dal suo iperuranio fuori dallo spazio e dal tempo per penetrare nel nostro mondo reale e non che avvenga il contrario, come invece accade in ogni altra pellicola che ha cercato di sfruttare il ricco patrimonio della fiaba popolare per convertirlo in cinema. Il racconto dei racconti propone un percorso contrario che curiosamente è anche l’inverso rispetto a quanto succede di solito nel cinema di Garrone, abituato a partire dal reale per spaziare nel fantastico.
A confermarlo è la scelta di ricorrere all’artigianato di una volta anche nel caso delle due sole creature veramente fiabesche del film: sia nel caso del drago marino che il re del racconto La cerva fatata deve uccidere affinché la moglie possa cibarsi del cuore e vincere così la propria sterilità, che in quello della pulce ipertrofica che il re del racconto La polece alimenta nascondendola nella propria stanza e che poi usa come oggetto della tenzone per accontentare le smanie nuziali della figlia, Garrone ha deciso di far costruire due ingombranti animali così veri da sembrare autentici pur non essendo stati creati al computer.
E lo stesso accade con le location scelte in Italia per trovare scenari adeguati a livello architettonico e naturalistico al mondo fantastico descritto da Basile nei suoi cinquanta «tratteniementi» pensati per i bambini. A rendere ancora più magnifica la visionarietà del film di Garrone (e forse in sottile polemica con la troppa fantasy che fa recitare gli attori in studios e poi ne sovrappone le immagini su sfondi creati con gli artifici della grafica computerizzata) sono infatti gli esterni scelti per le tre vicende: dal castello di Donnafugata in Sicilia a Castel del Monte in Puglia, da quello di Sammezzano a Reggello all’incredibile miracolo urbanistico dell’abruzzese Roccascalegna per finire con i canyon incantati dell’Appennino, tutto ciò che Garrone mostra come scenario non ha un solo centimetro di cartapesta da vendere, ma è il territorio ideale per un fantastico fiabesco più vero del vero.
Uno dei tre lungometraggi in concorso a Cannes in questi giorni, Il racconto dei racconti è però anche la riflessione di un autore coltissimo che scegliendo di parlare del mondo di oggi attraverso il filtro della fiaba lo fa senza mai rinunciare a infarcire le immagini ammalianti che la fotografia del mago Peter Suschitzky (direttore della fotografia per Chronenberg da Inseparabili in poi) gli regala con ricche citazioni colte di cinema «alto» di diversa provenienza. Ed è così che il Fellini di Casanova va a braccetto con lo Shamalyan di The Village e Lady in the Water, o ancora il Pinocchio di Comencini incontra a metà strada La maschera del demonio di Bava facendosi suggerire certi sipari dell’orrore dal Goya del ciclo dei Capricci.
Uno spettacolo per gli occhi che non rinuncia mai a solleticare la mente in un equilibrio pericoloso ma magico simbolicamente rappresentato dalla scena con cui il film si chiude: là dove un saltimbanco attraversa su un cavo sospeso lo spazio che si apre verso il cielo nella corte interna del Castello voluto agli inizi del XIII secolo da Federico II a Castel del Monte in Puglia per celebrare la fiaba del suo regno nordico trapiantato nel sud Italia. Ovvero la sintesi più ardita di un fantastico radicato alla perfezione nella realtà tangibile della terra.
Trama
Una regina sterile accetta di seguire i consigli di un negromante pur di avere l’agognato figlio che ha sempre solo sognato, ma non può prevedere le conseguenze di questo suo gesto. Un re erotomane si lascia sedurre dalla voce di quella che crede una ragazza, scoprendo poi che però si tratta di una vecchia avvizzita la quale, grazie ai sortilegi di una maga, si trasforma in una giovane bellissima e lo riconquista. Un re promette la mano della figlia a chi riuscirà a indovinare a che animale appartenga la pelle di una pulce che lui stesso ha allevato e nutrito fino a convertirla in un montone, ma non può prevedere che il solo in grado di farlo sarà un orco dai modi ferini.
di Redazione