Il punto di rugiada

La recensione di Il punto di rugiada, di Marco Risi, a cura di Marco Lombardi.

Risi e… bisi, possiamo dire. Anche questo ultimo film di Marco Risi, Il punto di rugiada, presentato in anteprima mondiale all’ultimo Torino Film Festival, risiede infatti in una terra di mezzo: proprio come il riso e bisi, la cui consistenza pone il piatto a metà strada fra una minestra e un risotto, il film è a metà strada tra una fluida commedia, e un più tenace dramma collettivo.

La storia mette in scena l’eterno incontro/scontro fra i cosiddetti “vecchi”, un termine caro a Daniele Gaglianone, e i giovani, a rifare il verso a una (quasi omonima) canzone di Francesco Guccini. Come in quella storia, in cui un vecchio e un bambino, pur guardando nella stessa direzione, vedono “orizzonti” diversi, anche qui i due giovani (e attorialmente bravi) protagonisti, che devono scontare la condanna a un anno di servizi sociali, pur essendo quotidianamente vicini agli anziani di una casa di riposo, hanno prospettive future assai diverse perché i vecchi sono paradossalmente più giovani dei giovani stessi, che mancano di entusiasmo, e soprattutto di coraggio.

La commedia potrebbe, potenzialmente, toccare delle punte di retorica, ma non lo fa mai grazie a due ingredienti: la sincerità, che possiamo percepire dal bene che Risi vuole ai suoi personaggi, per come riesce a renderli tutti empatici, e una punta di agrodolce, perché anche questo film finisce – dietro le lacrime, e dietro la sua dolcezza – per essere una denuncia sociale, e cioè la condanna di una società che non solo non valorizza il patrimonio di esperienza dei “vecchi”, bensì li trasforma in oggetti da raccolta differenziata. Solo uno dei due giovani protagonisti (che ha investito e ucciso, da ubriaco, una persona) riuscirà a capire dal suo padre virtuale, Dino (non a caso il nome del padre di Marco Risi), che innanzitutto bisogna essere sinceri con sé stessi, anche se il desiderio è quello della fine, poi sapersi accettare, ed eventualmente anche perdonare. Il “messaggio” arriva anche perché a veicolarlo è un particolarmente bravo Massimo De Francovich, che riesce a condensare il vapore acqueo della contemporaneità in rugiada, cioè le tante parole politicamente corrette che ci circondano quotidianamente in qualcosa di “concreto”, cioè in un aiuto vero.

In barba a coloro che hanno definito il film didascalico, a noi sembra “rivoluzionario” al pari dei suoi più duri, da Il branco, a Il muro di gomma, a Fortapasc: come Giancarlo Siani, martire di un mondo che non conosce l’amore, anche il giovane Carlo starebbe per soccombere, se non fosse che qui – che siamo nel pieno campo della fiction, rendendo possibile ciò che la realtà spesso rende impossibile – è Risi a disegnare intorno a lui un modello tanto ideale, quanto plausibile, quello di una società in cui almeno i vecchi sono capaci di una rivoluzione un po’ scorbutica, e poco di moda, ma potentissima: quella dell’amore.


di Marco Lombardi
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