Il ponte delle spie

Il «ponte delle spie» cui il titolo del film fa riferimento è il celebre Glienicke Brücke, un’anonima struttura in ferro massiccio costruita nel lontano 1907 e destinata a unire la parte orientale della città di Berlino con Postdam. Negli anni della Guerra Fredda questo ponte divenne  tristemente famoso perché segnava la divisione fisica tra la Berlino Ovest controllata dalle forze alleate e quella Est in mano ai sovietici.

Ed è su questo ponte che il 10 febbraio 1962 avvenne uno scambio di prigionieri politici all’epoca non ritenuto troppo diverso dai molti traffici di spie in cui le due superpotenze erano specializzate in quegli anni di alta tensione politica, ma di fatto destinato a diventare una sorta di anestetico contro la temuta degenerazione nei rapporti tra i due paesi e il tracollo finale verso la distruzione di massa in chiave atomica.

Quella sera freddissima il ponte venne attraversato in direzioni opposte da due individui che non avevano nulla in comune se non l’essere stai coinvolti a diverso titolo nel risiko letale di un’era della Storia i cui protagonisti ballavano sull’orlo dell’abisso consci che da un momento all’altro qualcuno dei troppi Dottor Stranamore attivi all’epoca avrebbe potuto schiacciare il bottone rosso della soluzione finale.

Quegli uomini erano rispettivamente William Genrikhovich Fisher, nato e cresciuto in Scozia da genitori russi e poi divenuto informatore del KGB per il quale assunse il nome di Rudolf Abel, e Gary Powers, pilota americano catturato dai sovietici e condannato ai lavori forzati dopo che il suo caccia da ricognizione U-2 era stato abbattuto nei cieli della Russia sovietica il 1 maggio del 1960.

Ma arrivare al loro scambio, apparentemente un semplice do ut des tra potenze impegnate a prendersi a cazzotti camuffando le risse internazionali sotto forma di giochi di spionaggio d’alto profilo, non era stato tanto facile e un’intera nazione aveva partecipato in maniera più o meno attiva a una sorta di processo/linciaggio di massa ai danni di un uomo solo il cui unico torto era stato quello di credere nella giustizia e nel diritto che ogni essere umano debba avere accesso a un giusto processo.

Quell’uomo era James B. Donovan, ricco avvocato di Brooklyn specializzato in arbitrati assicurativi e negoziazioni amministrative che il procuratore generale di New York e il Governo Kennedy stesso decisero di coooptare non solo per fargli assumere la difesa d’ufficio della spia Rudolf Aber ma anche per curare in un secondo tempo la negoziazione dello scambio dei due summenzionati prigionieri politici.

In quel clima da crisi di nervi internazionale nella quale il cittadino medio americano andava a letto con l’incubo della bomba atomica sganciata dalla Russia contro la più grande democrazia occidentale (incubo di lì a poco culminato nella cosiddetta crisi cubana della Baia dei Porci), accettare la difesa di un «cliente» quale una spia del KGB residente nel cuore pulsate di Brooklyn e di lì attivo informatore dei propri capi in URSS non poteva essere una scelta priva di conseguenze.

E così fu infatti per Donovan (come da lui stesso ricostruito nel volume autobiografico La verità sul caso Rudolf, riedito in Italia da Garzanti in occasione dell’uscita del film): uomo sorretto da una fede costante nell’etica professionale e nello stesso tempo paradigma dell’americano medio orgoglioso del proprio senso di appartenenza a una nazione e ai suoi valori democratici, questo tranquillo e agiato avvocato — che da giovane era stato parte del collegio giudicante nel processo di Norimberga — trascorse anni di lacerante dicotomia diviso com’era tra il senso del dovere e l’amor di patria da una parte e il rigetto mostrato nei suoi confronti dall’opinione pubblica che lo considerava alla stregua di un infido traditore per il solo fatto di aver accettato la difesa di una spia sovietica.

Il ponte delle spie è l’ennesima incursione di Steven Spielberg nella grande Storia del secolo breve (da lui già investigata a diverso titolo in 1941 — Allarme a Hollywood, L’impero del sole, Always — Per sempre, Schindler’s List, Salvate il soldato Ryan, Munich e War Horse) e si avvale di una sceneggiatura originale dell’inglese Matt Charman revisionata addirittura dai fratelli Coen che vi hanno aggiunto il loro tocco leggero, come nel caso della bellissima scena iniziale nella quale la spia Rudolf viene mostrato intento a dipingere un proprio autoritratto e poi esterni newyorkesi come se fosse un pittore amatoriale qualunque e non un pericoloso informatore del KGB.

Il film parte dall’arresto di Rudolf a Brooklyn dopo un appassionante inseguimento sulla metropolitana newyorkese (con intenzionali citazioni da Hitchcock) per arrivare fino al già menzionato scambio di prigionieri. Il tutto passando per una lunga parte centrale dedicata ai tormenti dell’avvocato Donovan e alla sua battaglia per affermare i valori del giusto processo e la rispettabilità dell’imputato che ha accettato di difendere pur avendo contro non solo la famiglia ma un’intera nazione.

Senza rinunciare a temi cari a tutto il suo cinema (l’individualismo dell’uomo americano, l’epica dell’individuo solo che fa il proprio dovere anche contro l’opinione comune e in nome del senso della giustizia, la coscienza dei singoli in contrasto aperto con quella della collettività e via dicendo), Spielberg mette insieme un accorato omaggio al cinema di spionaggio dei tardi anni ’60, ricostruendo con cura filologica non solo le cupe atmosfere della Berlino targata DDR ma anche il non meno asfittico clima da caccia alle streghe che caratterizzava l’America di quegli anni, sospesa tra il terrore dell’atomica e la voglia di serena normalità all’ombra della Costituzione.

Da gran cinefilo quale ha sempre mostrato di essere in tutto il suo cinema, Spielberg non rinuncia però nemmeno a disseminare lungo i 141 minuti de Il ponte delle spie continui riferimenti a titoli di culto del genere di appartenenza del suo film. Primi fra tutti La spia che venne dal freddo e soprattutto Funerale a Berlino, cult del 1966 per gli appassionati di spionaggio che, guarda caso, aveva la sua scena clou proprio sullo stesso ponte in cui si svolge lo scambio di prigionieri in questa incursione retro in quel mondo tutto nervi scoperti che oggi sembra lontano anni luce.

Prodotto da Spielberg stesso (che in più di un’occasione ha ammesso di aver pensato il film come un tributo al proprio padre Arnold, ingegnere elettronico che la General Electric inviò in missione proprio a Berlino Est in quegli anni infuocati e che tornò a casa con in tasca una foto scattata da lui stesso dei resti dell’aereo spia U-2 abbattuto pochi mesi prima nei cieli sovietici), Il ponte delle spie ha, tra i tanti meriti, anche quello di ricostruire l’accoppiata Spielberg/Tom Hanks, qui alla quarta collaborazione dopo Salvate il soldato Ryan, Castaway e Prova a prendermi e ormai garanzia di successo sicuro.

Accanto a Tom Hanks, impegnato a dare spessore umano e credibilità cinematografica a un personaggio anonimo e senza troppe qualità che gli si attaglia perfettamente come tanti altri uomini ordinari cui ha dato il volto in passato, giganteggia però l’attore e drammaturgo inglese Mark Rylance. La sua straordinaria caratterizzazione della spia Rudolf Abel, personaggio carico di chiaroscuri restituito con assoluto rigore anche nell’accento scozzese che solo quanti vedranno la versione originale potranno apprezzare, non sarà facile da eguagliare per qualsiasi suo collega che nella notte degli Oscar a fine febbraio vorrà competere con Rylance nella categoria del migliore attore non protagonista.

Dopo questa incursione nei territori sdrucciolevoli della Guerra Fredda, sembra difficile trovare un àmbito della tribolata Storia del ‘900 al quale Steven Spielberg non abbia dedicato una riuscita riflessione sul grande schermo.  Chi volesse passare in rassegna questa ricca sezione della sua ormai sterminata filmografia si accorgerà che manca una sola delle grandi ossessioni del cinema USA. E cioè il Vietnam. Ma gli appassionati è bene che si mettano il cuore in pace: è stato Spielberg stesso ad affermare che, dopo aver visto Platoon e Apocalypse Now, non ha più alcun senso girare un film su quell’altra guerra a stelle strisce, molto più sporca e ignobile di quella combattuta a colpi di spie con l’URSS.

Trama

In pieno clima di Guerra Fredda un legale assicurativo di Brooklyn ex giudice al processo di Norimberga e soprattutto abilissimo negoziatore viene inviato a Berlino per curare il delicato scambio tra un agente russo arrestato a New York e un pilota americano catturato in Unione Sovietica dopo che il suo velivolo da ricognizione viene abbattuto mentre sorvola i cieli russi.


di Redazione
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