Il Paradiso probabilmente
Nel suo nuovo lungometraggio Il Paradiso probabilmente Elia Suleiman, regista palestinese e apolide, continua a interrogarsi con la sua tipica cifra surreale sulle questioni dell’identità. Ma a dieci anni di distanza da Il tempo che ci rimane, la prospettiva sulla Palestina e sul mondo appare completamente rovesciata.
“Dove voleranno gli uccelli oltre l’ultimo cielo?”. Nelle note di regia de Il Paradiso probabilmente Elia Suleiman cita un verso del grande poeta di Palestina Mahmoud Darwish. Nato nel 1960 a Nazareth (oggi nella Galilea israeliana, ma con una popolazione a larga maggioranza araba), Suleiman aveva lasciato presto la terra natale di Gesù per approdare negli Stati Uniti, dove aveva vissuto dal 1982 al 1993, studiato cinema e iniziato la sua carriera da filmmaker. Rientrato in patria nel 1994, sull’onda delle speranze innescate dal processo di pace (interrotte dall’assassinio di Rabin), per insegnare cinema all’Università Birzeit di Gerusalemme, avrebbe aggiunto il suo nome e la sua poetica originale agli altri esponenti del ‘nuovo cinema palestinese’ riconosciuto dalla critica e nei festival: dal capostipite Michel Khleifi, esule in Belgio, a Rashid Masharawi, ma anche a registe come Norma Marcos e Mai Masri.
Il cinema è sempre una questione di sguardi. Lo sguardo del regista, anche sceneggiatore e attore protagonista, è il filo rosso del racconto anche in questo suo quarto lungometraggio (oltre a numerosi corti ed episodi di film collettivi), in concorso a Cannes, dove ha avuto una menzione speciale della giuria (in Italia è stato designato ‘Film della critica’ SNCCI). Nell’affiche ufficiale del film lo vediamo di spalle, sul limite di una scogliera davanti a un mare blu che si confonde con un cielo azzurro, immenso e senza nuvole. Da quella prospettiva, Souleiman guarda il mare verso occidente, verso quel Mediterraneo dove l’onda migratoria e i venti di guerra che giungono dalla sponda africana rischiano di mandare alla deriva tutta l’Europa, un tempo patria delle libertà civili e rifugio degli oppressi. È forse l’unica inquadratura in soggettiva, mentre per tutto il resto del film Suleiman si ritrae quasi sempre frontalmente, in piedi o da seduto, e il suo sguardo, ora attonito ora ironico, con quelle sopracciglia mobilissime, continua a interrogarci: ma non più su cosa e dove sia oggi la Palestina, ma piuttosto su quale luogo noi spettatori possiamo oggi chiamare casa. In fondo è la stessa domanda che sin dai suoi primi documentari ci pone il cinema di un grande autore, nato e cresciuto dall’altra parte della barricata, come Amos Gitai (che con Suleiman nel 1997 diresse a quattro mani il mediometraggio War and Peace in Vesoul). Dal canto suo, il regista di Nazareth la che aveva già raccontato la ‘scomparsa’ della Palestina in Cronaca di una sparizione (premiato come migliore opera prima a Venezia nel 1996), era consapevole di essere un cineasta apolide almeno dal 1998, quando ai Cahiers du cinéma aveva confidato ‘io mi sento straniero ovunque vado’.
Oltre venti anni e migliaia di morti (e tantissimi civili inermi tra questi) dopo, tanto è cambiato, il disincanto è assoluto e palpabile, e riguarda il pianeta intero, al punto che è la stessa prospettiva ad essersi rovesciata: “Nei miei film precedenti ho cercato di presentare la Palestina come un microcosmo del mondo; il mio nuovo film cerca di mostrare il mondo come se fosse un microcosmo della Palestina”, leggiamo sempre nelle note di regia.
Non c’è nessun ‘deus ex machina’ possibile – come quella donna bellissima che con il suo passo deciso attraversava i check point e faceva crollare le torrette di guardia dell’esercito israeliano in Intervento Divino (2002); né il protagonista può scavalcare con un’asta il Muro, come nella geniale trovata che chiudeva Il tempo che ci rimane (2009)
No, non rimane davvero più tempo, nemmeno per la memoria (anche se i palestinesi, ostinati, restano “l’unico popolo che beve per ricordare e non per dimenticare’), ma solo per fuggire, perché ad essere in fiamme adesso è tutto il mondo, come ammoniva l’ultimo film di Roberto Minervini. Si deve fuggire anche da casa propria, che ormai ci sembra vuota (nel cinema sempre autobiografico di Souleiman i suoi veri genitori erano una presenza costante, ma ora, dopo il padre, anche la madre non c’è più) ed estranea, circondata com’è da vicini prepotenti che potano gli alberi del giardino e ci rubano i bellissimi e succosi limoni (il pensiero va a Il giardino di limoni di Eran Riklis, 2008); o da strani personaggi che raccontano storielle metaforiche, ma senza l’umorismo della cultura yiddish.
Se il tempo manca, resta dunque lo spazio. Usando come pretesto narrativo la ricerca dei finanziamenti per questo suo nuovo film (ricerca certo non facile, che spiega i dieci anni di distanza dal precedente lungometraggio) Suleiman arriva (in aereo certo, è pur sempre un esiliato di lusso) a Parigi, capitale del cinema e della libertà, Ma ormai la ville lumiére è una città deserta, percorsa nelle vie del centro solo da modelle in abiti feticcio e turisti cinesi, mentre le uniche presenze vive sono le parate militari e i carri armati che attraversano lo schermo e cingono la Banca di Francia. La violenza è totalmente delegata allo Stato (in realtà, come dimostrano le cronache di questi mesi e giorni, l’opposizione sociale è ben viva e vegeta oltralpe, a differenza che da noi…). Per il produttore francese, comunque, il suo film ‘non è abbastanza palestinese’, e non si può dargli torto. Suleiman allora si spinge ancora più ad Ovest, nell’America di Trump (ancora ci chiediamo con quale passaporto sia riuscito ad entrare…). A New York, come ben sappiamo, la violenza è stata invece affidata ai singoli cittadini che scorazzano armati sino ai denti nei supermercati o per le strade, mentre a Central Park poliziotti obesi ricorrono invano una giovane donna dalle ali d’angelo (il sarcasmo verso le gesta di militari e forze dell’ordine è da sempre un leit-motiv del cinema di Suleiman). Quanto alla ricerca di soldi, la produttrice statunitense non lo ascolta nemmeno. Non resta che tornare a Nazareth, dove la situazione può solo peggiorare e infatti quella donna beduina che attraversa di nuovo lo schermo adesso porta dei recipienti vuoti (l’acqua viene da tempo sistematicamente sottratta ai palestinesi).
Pur rinnovando l’omaggio al cinema e alla mimica di Buster Keaton e Jacques Tati, il film non possiede però la forza e l’inventiva dissacrante, provocatoria e dadaista (degna del René Clair di Entr’acte) di altri film precedenti. In compenso, l’umorismo si fa qua ancora più sottile e rarefatto mentre il sottotesto simbolico resta molto marcato. Giunto alla soglia dei 60 anni, Suleiman sembra aver rinunciato anche lui alla speranza, né può apparire consolatorio il finale dove i giovani arabo-israeliani di Nazareth ballano e si ubriacano in una specie di lounge-bar come in qualsiasi discoteca di Tel Aviv o di Milano.
La dedica finale del film va al grande scrittore John Berger e al produttore Humber Balsan che amarono il popolo di Palestina e credettero in lui come artista. E forse una dedica ideale spetta anche a Mahamud Darwish.
di Sergio Di Giorgi