Il nome del figlio
In principio di tutto c’è un fortunato testo teatrale, Le Prénom, scritto da Alexandre de La Patellière e Mathieu Delaporte che nel 2010 fu il più grosso successo dell’anno sui palcoscenici parigini. Dopo mesi di repliche i due autori decisero di provare la strada della trasposizione cinematografica. Ed ecco così arrivare sugli schermi Cena tra amici, altra gallina dalle uova d’oro ai botteghini transalpini. Il nome del figlio, diretto da Francesca Archibugi (che torna a dirigere a sei anni di distanza da Questioni di cuore e che firma la sceneggiatura a quattro mani con Francesco Piccolo) è l’ultima filiazione di quella fortunata pièce, trasferendone il brillante fioretto verbale dagli orizzonti francesi a quelli ruspanti di casa nostra.
Metti una sera a cena in una bella casa alto borghese della Roma bene dove Sandro (Luigi Lo Cascio, docente universitario di letteratura italiana arrogante e spocchioso nella sua sicumera di intellettuale con la puzza sotto il naso) e la moglie Betta (professoressa alle medie e madre di due bambini dai nomi bizzarri) attendono la visita di Paolo (fratello di Betta nonché agente immobiliare caciarone e superficiale sempre pronto alla battuta di spirito e vacuo come la bella presenza che si porta dietro da sempre) e della consorte Sandra (coatta di Casal Palocco che, non ostante le umili origini, è diventata una star per aver pubblicato un romanzetto pruriginoso in stile Cinquanta sfumature di grigio). Con loro c’è anche Claudio (Rocco Papaleo), amico storico di tre membri delle due coppie ed erroneamente creduto gay da tutti.
L’occasione non è banale: Paolo e Sandra devono comunicare agli altri il nome che hanno deciso di attribuire al figlio che hanno da poco scoperto di aspettare. Ma la burla che Paolo architetta in proposito (dicendo di voler chiamare Benito il figlio, pur provenendo egli da una famiglia di ricchi ebrei radical chic sterminata per 9/10 a seguito delle leggi razziali approvate da Mussolini nel ’38, ma volendosi invece riferire al titolo di un romanzo breve di Herman Melville che intravede tra i libri del cognato) dà la stura a un acceso confronto dialettico tra tutti i partecipanti alla serata. Rissa dialogica che parte come scontro su diverse posizioni politiche e orientamenti generali nel modo di vedere la vita e che col passare dei minuti si avvita in un pericoloso gioco al massacro in cui ci sarà spazio per feroci rinfacciamenti e colpi di scena a raffica da cui nessuno avrà modo di essere risparmiato in un finale pirandelliano da «maschere nude» che crollano di fronte alla realtà autentica.
Chi si dovesse aspettare un fiacco remake del pur solido e vivace originale francese (sopratutto il testo teatrale cui Archibugi e Piccolo fanno evidentemente riferimento diretto) rimarrà deluso. Il nome del figlio è più che altro un sagace sfruttamento di un meccanismo narrativo rodato che ne adatta la ferocia chirurgica dell’operazione di scavo psicologico, sociale e antropologico alle latitudini di casa nostra.
Col risultato di convertire i brillanti lustrini narrativi di Le Prénom in un’astuta rampa di lancio per infilare il bisturi della sceneggiatura tutta dialoghi e scene madri nella carne molle del passato prossimo di un’Italia che non c’è più (quella degli anni ’70 ma anche quella più remota dei giorni cupi del Fascismo razzista), e per suggerirne allo spettatore una possibile versione 2.0 da inventarsi tutti insieme alla fine di ogni forma di berlusconismo inteso anche nella sua versione edulcorata e piaciona del renzismo di maniera.
Non è infatti un caso che i personaggi di Lo Cascio e di Gassman siano le rappresentazioni viventi del fallimento congiunto di Sinistra e Destra (l’una con le proprie idiosincrasie altezzose in nome di uno sterile impegno, l’altra con quell’arrivismo arraffone e gretto che ha portato il paese sull’orlo dell’abisso), ma anche lo specchio di un passato che cerca di sopravvivere nella cristallizzazione di se stesso e rifiuta di guardare al domani scrollandosi di dosso tutti i cascami di false illusioni tenute in vita per decenni come un lungodegente in coma vigile.
Il film della Archibugi è tutto in queste lunghe e snervanti logomachie tra i cinque personaggi in scena per i 94 minuti della sua durata: chi ama il cinema affidato solo alla parola e alla claustrofobia di un testo teatrale scippato dal grande schermo per trovare un’idea buona cui aggrapparsi uscirà dalla sala pensando che Il nome del figlio sia una piccola gemma ricavata da una pietra già di per sé preziosa ma lavorata ad arte per entrare alla perfezione in una montatura (la «cornice» socio-politica) che sembrava fatta apposta per accoglierla esaltandone il brillio.
Ma non tutto è oro quel che luccica. E se chi il cinema di sole parole lo digerisce a stento farà bene a tenersene a debita di stanza, per onestà va detto che la matrice teatrale della sceneggiatura mostra comunque di essere un limite serio per il senso di relativa claustrofobia che il susseguirsi di scene madri e di confronti all’ultimo sangue dialettico finisce col far sentire anche al più ben disposto degli spettatori.
Un limite questo di cui la regista stessa si è evidentemente resa conto, cercando di arieggiare il testo con frequenti rievocazioni in flash-back (ambientati negli anni ’70 e volti e a fornire al pubblico inutili ragguagli su infanzia e giovinezza di quattro dei cinque moschettieri in azione sul palcoscenico del film) che finiscono però col mostrare ben presto la corda rivelandosi cioè per quel che di fatto sono. Ovvero zeppe narrative che la Archibugi usa anche per assecondare la sua passione per l’adolescenza, qui però nota per la prima volta stonata in tanti titoli in cui erano proprio i bambini a regalare quel quid in più al suo attento cinema di studio dell’anima infantile in evoluzione tumultuosa.
Basato com’è sul gioco al massacro verbale che porta i cinque protagonisti a strapparsi dal volto le maschere da cui si son fatti proteggere in anni di finzione esistenziale lasciando che la sola coatta di Casal Palocco si riveli autentica nella sua genuinità ruspante, Il nome del figlio è inevitabilmente un film da mattatori in stato di grazia che cercano di rubarsi la scena nel continuo susseguirsi di risse verbali e colpi di scena che ne disvelano a poco a poco miserie e vecchi rancori.
Gassman, Lo Cascio, Golino e Papaleo (curiosamente tutti attori-registi con alle spalle anche prove importanti dietro la macchina da presa) non sono certo una scoperta e sono magistrali nel disegnare con volutamente smisurata esagerazione le contorte personalità dei personaggi che interpretano, pur non riuscendo a nascondere il proprio disagio nella peggiore scena corale di tutto il film. Ovvero là dove — in una fiacca citazione de Il grande freddo — fanno un goffo trenino canoro sulle note di Telefonami tra vent’anni di Lucio Dalla.
La vera sorpresa è però Micaela Ramazzotti: alle prese con un personaggio che ricorda molto la cardiologa sciroccata del verdoniano Posti in piedi in Paradiso ma soprattutto la coatta di Tutta la vita davanti, l’attrice romana si conferma come una delle più affidabili realtà attorali del cinema femminile di casa nostra perché riesce a disegnare con assoluta naturalezza un ritratto così vero e autentico di ruspante genuinità periferica da meritarsi di avere a disposizione la più bella di tutte le scene madri del film.
Sospeso tra citazioni colte di cinema di alto bordo e la vocazione alla parabola impegnata che finge di essere cinema leggero da svago in poltrona il venerdì sera, Il nome del figlio ha però una sua freschezza ariosa (fatta di battute al fulmicotone piene di salace umorismo da commedia di razza) che attraversa buona parte dei forse troppi dialoghi di cui si compone e che, unita al tema del confronto politico tra Destra e Sinistra, richiama alla memoria due film di Paolo Virzì quali Ferie d’agosto e Caterina va in città. Un nome quello di Virzì non citato a caso, visto che appare come coproduttore ma anche come padre della neonata che si vede venire al mondo nell’ultima sequenza del film e che il regista livornese ha ripreso durante il recente parto della compagna.
Trama
Due coppie di amici (legate però anche da vincoli di parentela di sangue e acquisiti) e un compagno di viaggio di sempre si riuniscono per una cena durante la quale intendono festeggiare la gravidanza di una delle donne. Quando però la coppia comunica il nome che intende dare al nascituro ed emerge che si tratta di un nome storicamente scomodissimo dalle nostre parti, ecco che vecchie ruggini e troppi scheletri nell’armadio emergono a catena trasformando la serata in un gioco al massacro psicologico ed emotivo.
di Redazione