Il nastro bianco

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il_nastro_bianco_-_hanekeNel 1997 veniva pubblicato in Italia il libro di Daniel Jonah Goldhagen, intitolato I volenterosi carnefici di Hitler. Si trattava di un ampio saggio che descriveva in modo approfondito le basi molto diffuse, popolari, dell’antisemitismo che poi avrebbero dato vita in Germania al nazismo, mostruosità politica non generata dunque solo dal delirio di alcuni potenti ma anche da una tendenza generale di un’intera collettività. In Schindler’s List, portando la questione fuori dai confini tedeschi, Steven Spielberg sembra avvalorare questa tesi nella sequenza in cui una bambina polacca urla, con terribile malvagità, agli ebrei che sono sulla via della deportazione di “andare via”.
Goldhagen (a differenza di Spielberg) fu attaccato in maniera veemente da numerosi storici, i quali non consideravano sufficientemente provata la sua tesi, mentre in Germania il libro non fu accolto in maniera del tutto positiva.
Chissà cosa penseranno i detrattori di Daniel J. Goldhagen, guardando le gelide scene che compongono il film di Michael Haneke: Il nastro bianco.
La posizione dell’autore di Funny Games è addirittura più estrema di quella dello storico americano. Le radici del nazismo, infatti, secondo l’impostazione di Haneke sarebbero state alimentate non solo dall’antisemitismo (questione peraltro non affrontata nel film) ma anche da un sistema sociale ed esistenziale diffuso in maniera capillare e perversa in tutti gli strati sociali (anche i più umili) nella Germania dei primi del Novecento. Si trattava di un meccanismo di relazioni umane caratterizzato sostanzialmente da ottusa repressione religiosa, brutale violenza familiare, vergognosa ipocrisia sociale, abominevole odio nei confronti del diverso. Un mix scellerato e criminale che evidentemente rappresentava il concime grazie al quale due decenni dopo il periodo nel quale è ambientata la storia si sarebbe sviluppato il regime politico più sanguinario e delirante del XX secolo.

Michael Hanecke compone questo quadro agghiacciante attraverso uno stile freddo, distaccato e oggettivo. Le sequenze del film sono equilibrate, mai spettacolarizzate o drammatizzate. Ogni immagine, ogni movimento di macchina descrive l’assoluto gelo che contraddistingue i rapporti umani nel villaggio del nord della Germania, luogo emblematico della vicenda. Vien fuori un ritratto agghiacciante di una nazione all’interno della quale stava incubando il nazionalsocialismo e che fondava l’educazione dei giovani sulla sopraffazione e sul disprezzo. Haneke ha realizzato un film di una perfezione formale quasi inarrivabile e sembra aver puntato molto su un bianco e nero di rara complessità visuale che è servito a comunicare al fruitore la separazione tra individui e sentimenti, tra collettività e accettazione dell’altro. Il nastro bianco è un’opera dura, cupa, inquietante che colpisce il fruitore grazie alla forza dell’impostazione linguistica scelta dal suo autore. Alla fine della visione rimane l’impressione che questo humus che ha determinato la nascita della feroce dittatura nazista sia una sorta di perfida malattia che può albergare nelle società colte ed evolute e, soprattutto, che può provocare le medesime devastanti conseguenze nel mondo di oggi, nel terzo millennio.


di Maurizio G. De Bonis
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