Il Miracolo
Il terzo film di Edoardo Winspeare, dopo Sangue Vivo (2000) e Pizzicata (1996), è un’opera semplice, tradizionale, di forte realismo.
Al centro di Il miracolo è il rapporto tra Tonio (Claudio D’Agostino), un bambino di 12 anni, dai genitori tutt’altro che responsabili, e Cinzia (Stefania Casciaro), una ragazza segnata dal rifiuto della madre nei suoi confronti. Si tratta di due anime ferite, sensibili, capaci e bisognose d’amore e, in quanto tali, destinate ad incontrarsi.
La bellezza di questo film che, soprattutto nella prima parte, ricorda moltissimo l’ ingiustamente sottovalutatoDomenica (2001) di Wilma Labate, è proprio nel riconoscimento reciproco che scatta tra bambino e ragazza. Verso il finale, la pellicola assume una piega diversa e, quando il padre di Tonio appare intenzionato a sfruttare la presunta capacità del bambino di fare miracoli, sembra di piombare in pieno L’ora di religione (2002). Come dire, che in qualche momento, Winspeare pare incerto sulla direzione da seguire e sul taglio da imprimere al film: l’ambiguità si scioglie, però, nella sequenza conclusiva, dove risulta evidente che il regista intende dire che l’unico vero prodigio concesso all’uomo è quello dell’Amore. E’ grazie ad esso, e non a improbabili poteri soprannaturali, che Tonio strappa Cinzia alla morte.
Va aggiunto che Stefania Casciaro, la giovane interprete di Cinzia, all’esordio nel mondo del cinema, è bravissima nel rendere il suo personaggio e nel donarle una ruvidezza, che altro non è se non dolcezza inespressa. Il carattere di Cinzia è tutto nella sequenza in cui compie un furto e viene licenziata, pur di potersi permettere di fare un bel regalo, per il compleanno, alla madre, inutilmente tanto amata. Insomma, la ragazza e Tonio sono due personaggi, fragili e forti, allo stesso tempo: fragili per la situazione familiare che sono costretti a subire, forti per la loro purezza e la loro capacità di riconoscere la bellezza. In questo senso, i due sono assolutamente controcorrente e rischiano, come accade ai protagonisti del bel film di Tavarelli, Liberi, di generare una sorta di rifiuto nello spettatore medio, abituato alla filosofia del successo a tutti i costi e al cinismo.
A maggior ragione, film come questi sono necessari per ricordarci che i sentimenti non sono il superfluo e che commuoversi non vuol dire essere poveri ingenui, ma semplicemente uomini.
di Mariella Cruciani