Il mio vicino Totoro
La recensione di Il mio vicino Totoro, di Hayao Miyazaki, a cura di Francesco Parrino.
Per provare a capire l’importanza de Il mio vicino Totoro nella carriera di Hayao Miyazaki, basti pensare come il magico King Totoro sia da circa trentacinque anni la mascotte ufficiale dello Studio Ghibli. Compare lì, sullo sfondo del logo, nei titoli di testa di ogni film, e per due ragioni ben precise. Non solo si tratta del film che – assieme al contemporaneo e parallelo Una tomba per le lucciole di Isao Takahata (in Giappone, per ridurre i rischi finanziari, i due anime furono distribuiti entrambi il 16 aprile 1988) – consacrò gli intenti rivoluzionari dello Studio Ghibli dandovi solidità, ma è anche il più biografico dei dodici film diretti dal regista. La vicenda familiare dei Kusakabe formati dal padre Tatsuo, la madre Yasuke e le figlie Satsuki e Mei, ricorda molto un episodio dell’infanzia di Miyazaki.
Da bambino infatti, assieme ai suoi fratelli – proprio come Satsuki e Mei – l’autore trascorse molto del suo tempo in ospedale per accudire sua madre Yoshiko, malata cronica di tubercolosi spinale. Ora, nella finzione narrativa de Il mio vicino Totoro non viene mai rivelata la malattia di cui Yasuke soffre, ma secondo Miyazaki: «Se i due protagonisti fossero stati dei ragazzi anziché delle ragazze, Totoro sarebbe stato troppo doloroso da realizzare». Da qui scelta di rendere il film nelle corde di una magica fiaba che andasse a: «Intrattenere e toccare i suoi spettatori, ma anche di rimanere con loro molto dopo che hanno lasciato la sala cinematografica». Tra questi lo stesso Miyazaki, intento a cercare tra le righe di una narrazione deliziosa e meravigliosa, un modo per lenire il dolore di un passato inelaborabile.
La prospettiva di Satsuki e Mei infatti permette a Miyazaki di vedere il mondo attraverso gli occhi di un bambino. Un mondo, quello de Il mio vicino Totoro, dove il buio non fa paura e si affronta a viso aperto perché ignoto da conoscere e in cui avere l’occasione di incontrare ora i Susuwatari, spiriti della fuliggine, protettori dall’appartamento dei Kusakabe, tra intercapedini e cantine, ora lo stesso Totoro nella foresta. Creatura serena, pelosa, sonnacchiosa, magica e spensierata, dalla natura immancabilmente ambigua anche se secondo Miyazaki: «Totoro non è uno spirito, è semplicemente un animale che vive di ghiande. Presumibilmente è il maestro della foresta ma è giusto una vaga approssimazione» perché in realtà c’è molto più di questo. Totoro è al contempo magia e protezione, naturale e soprannaturale, custode delle tematiche ambientaliste, animiste e shinotiste della narrazione. Un Kami (ovvero uno spirito divino dello Shintō) o forse semplicemente uno scoiattolo dalle proporzioni esagerate, magari entrambe le cose. Intorno al suo mistero (negli anni Novanta, a un certo punto si parlò di Totoro come di uno shinigami/dio della morte e del film come un’allegoria del celebre Incidente di Sayama) si regge il fascino e la magia di un Il mio vicino Totoro in continuo bilico tra sogno e realtà. Un autentico cult movie che trentacinque anni dopo mantiene intatta la sua intrinseca e insindacabile bellezza filmica, ricordandoci il valore della famiglia, delle piccole cose e dei sacrifici che facciamo ogni giorno.
di Francesco Parrino