Il Mercante di Venezia
Michael Radford, regista di Il postino, si misura, qui, con l’opera di Shakespeare e realizza un film ambizioso, ricco di riferimenti alla grande pittura veneta rinascimentale, fedele al testo, ai luoghi, all’epoca, ma, nonostante questo, o, forse, proprio per questo, Il mercante di Venezia non emoziona e non coinvolge lo spettatore.
Chi guarda resta, per lo più, estraneo ai fatti narrati, soprattutto quando si tratta di Porzia e degli scrigni d’oro, d’argento, di piombo.
Probabilmente, la responsabilità non è tutta di Radford: anche nel testo originale si trovano due vicende sostanzialmente divise l’una dall’altra (Antonio, Shylock e la libbra di carne/ Bassanio, Porzia e gli scrigni), cui si intrecciano vari episodi minori. Ciò nonostante, il film risulta noioso e ripetitivo in tutta la parte che vede protagonista Porzia, cui il padre ha lasciato l’obbligo di sposare se non colui che indovinerà in quale degli scrigni è rinchiuso il suo ritratto.
Completamente diverso è il discorso per la figura tragica dell’ebreo Shylock (Al Pacino), imponente e indimenticabile per la profondità della sua sofferenza e la grandezza del suo odio.
Shylock è un uomo ferito a morte dai pregiudizi e dal rifiuto altrui: quando vede presentarsi l’occasione di vendicarsi di Antonio (Jeremy Irons), che lo chiama cane senza motivo e gli sputa addosso, non ha alcuna esitazione e decide, come afferma lui stesso, di mettere in pratica la malvagità che gli altri gli hanno insegnato. L’ostinazione e il rancore di Shylock sono tutt’uno con la sua disperazione di essere umano discriminato: nonostante le apparenze, il suo non è un personaggio negativo o, quanto meno, lo è come tutti gli altri. Quando, durante il processo, smaschera l’ipocrisia di tutti i presenti, ricordando loro come trattano gli schiavi, considerandoli mera proprietà, e insiste per ottenere la famigerata libbra di carne, non si può non essere dalla sua parte.
Insomma, il film appare nettamente spaccato in due, con toni e registri diversi: tanto è superficiale, leggera, “plautina” la storia sentimentale di Bassanio e Porzia, tanto è dolente, sofferta, tormentata, la vicenda umana di Shylock.
Come restare indifferenti di fronti ad uno dei monologhi più famosi dell’opera scespiriana: “Non ha occhi un ebreo? Non ha un ebreo mani, organi, membra, sensi, emozioni, passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, non è soggetto alle stesse malattie?”.
Questa parte, da sola, giustifica, comunque, la visione dell’intero film, che si riscatta grazie all’intensità e alla forza tragica di Al Pacino, perfetto nei panni dell’ebreo crudele per necessità.
di Mariella Cruciani