Il grande Gatsby

L’australiano Baz Luhrmann aveva già avuto l’onore nel 2001 di aprire il Festival di Cannes: in quella occasione aveva presentato Moulin Rouge ed il giudizio sia di critica che di pubblico era stato sostanzialmente positivo. Il rapporto preferenziale con la Croisette era nato con la sua opera prima, Ballroom – Gara di ballo (Ballroom, 1992), in cui un campione di ballo liscio figurato non riesce a imporsi perché troppo originale finché trova la compagna ideale e l’amore.

In questa occasione, il suo lavoro non ha ottenuto univoci commenti poiché ogni cosa da lui realizzata può essere considerata sia positivamente che negativamente.
Partiamo dalla colonna sonora con il jazz attualizzato con l’uso del hip hop di Jay Z, le canzoni di Beyoncé e U2; non solo, nella parte più classica utilizza come musica d’epoca Un americano a Parigi composta da George Gershwin nel 1928 ed inserito in un film ambientato nel 1922.

L’età del jazz ne viene svilita perché i ritmi, seppur belli, di musiche più recenti non riescono a reggere il peso di quelle incredibili coreografie con ballerini caricati emotivamente dalle grandi orchestre in cui il batterista sottolineava ogni passaggio delle sezioni degli ottoni, dove le trombe urlavano il loro sensuale messaggio, i tromboni caricavano di emozioni torbidamente sensuali, i sassofoni creavano quel tappeto musicale che permetteva in ogni momento di avere un punto di riferimento, il pianoforte si ergeva a voce delle emozioni collettive ed i cantanti aggiungevano sensualità a tutto.

Pur apprezzando le ottime coreografie di John ‘Cha Cha’ O’Connell, che col regista aveva già collaborato per Australia (2008), hanno un qualche cosa di meccanico, prive di vere emozioni, incapaci di coinvolgere riducendosi semplicemente ad un bello spettacolo d’insieme realizzato con grande bravura e precisione da centinaia di ballerini. Sono più scene d’azione che non veri e propri momenti di follia collettiva creata dall’esagerato uso di alcool, droghe, anfetamine e desiderio di godere di feste incredibili che non richiedevano un invito per partecipare, che vedevano coinvolti politici, attricette, uomini d’affari, star del cinema, poliziotti corrotti, gente comune. Si apprezza la costruzione visiva ma non si riesce realmente a coinvolgere.

Nel romanzo di Francis Scott Fitzgerald la musica era trait d’union tra le varie parti, permetteva di fare immaginare intrighi, di sognare momenti di intimità. Qui, sfruttando anche il 3D, l’insieme assomiglia più ad un prodotto alla Harry Potter che non ad un musical raffinato forse inconscio desiderio del regista e dei produttori. Il libro suggerisce più che dire, tratteggia più che dipingere i vari personaggi che il lettore può interpretare con la propria sensibilità: si capisce che Gatsby ha misteriosi affari ma solo attraverso le ripetute telefonate che riceve da varie città.

Baz Luhrmann e l’immancabile Craig Pearce, invece, sembrano trattare il pubblico come fossero degli sprovveduti  a cui tutto, ma proprio tutto, bisogna dire e fare vedere. Un maggiordomo a cui manca solo un mitra per essere gangster perfetto, gli interventi di Gatsby per sedare pericolose discussioni tra boss malavitosi e così via, tradendo completamente lo spirito del libro ma rendendo possibile capire tutto quello che capita nella storia senza alcun sforzo.

La sceneggiatura usa nei dialoghi praticamente le stesse parole dello scrittore fornendo un’apparente coesione tra quanto appare sullo schermo e il libro pubblicato nel 1925, ma non è così. Le continue spiegazioni tolgono mistero e fascino alla storia, la privano di emozioni, la riducono ad una vicenda senza suspense in cui spesso serpeggia la noia.

Questo è stato il maggiore tradimento a Scott Fitzgerald ma anche la trovata di fare vedere l’aspirante scrittore Nick Carraway cinquantenne, distrutto dal alcool e dagli stravizi, ricoverato in casa di cura per malattie mentali non ci sembra molto riuscita, Ancora meno che lo psichiatra a cui è affidato come terapia gli faccia scrivere la storia che ha tanto condizionato la sua vita e che, alla fine, egli lo consideri il manoscritto del libro di cui era autore Scott Fitzgerald quasi a volere affermare che il grande scrittore era proprio il Nick del romanzo.

Altra parte importante del romanzo, quella che lega il marito della cugina di Daisy alla moglie di un ingenuo garagista, è ridotta ad un insieme di poche scene senza vigore ed in cui la figura dell’amico dell’uomo, il Nelson che lo aiuta a sopportare quella vita grama, è pressoché inesistente.

In quelle pagine vi era un ritratto preciso di una società in cui i tradimenti dei ricchi ai rispettivi coniugi era quasi un vanto, in cui i più deboli soccombevano allo strapotere di quei pochi che potevano avere ciò che volevano, dove l’amoralità era concessa solo a poche persone.

La premonizione che esisteva nel libro quasi avesse saputo l’autore del crollo di Wall Street e dell’inizio di quella Grande depressione non emerge come dovrebbe, poiché gli sceneggiatori sono troppo impegnati a raccontare visivamente quanto accade privilegiando fin troppo la love story sopra ogni cosa.

Leonardo DiCaprio, pur bravissimo, non sempre riesce ad essere convincente proprio perché raccontato soltanto come uomo innamorato che, al momento dell’incontro con la sua dea dopo cinque anni, si comporta come un innamoratino da commedie liceali senza un minimo di vis drammatica.

Tobey Maguire è il vicino con sogni da scrittore che ha abbandonato la provincia per cercare la fortuna a New York ma che per sopravvivere lavora in una società finanziaria. L’amicizia con Gatsby non ha i passaggi della curiosità, del disprezzo, della complicità: lo si vede solo a folleggiare ed a organizzare il funerale dell’uomo. Recitazione piatta per un personaggio mal caratterizzato.

Carey Mulligan è catastrofica, mai credibile in un ruolo che avrebbe richiesto ingenuità e malizia, dolcezza e determinazione: il suo volto non produce altro che inespressività, mancanza assoluta di spessore drammatico.
Del romanzo, forse la rilettura più interessante, ma non necessariamente la più bella, era stata realizzata nel 1949 da Elliott Nugent interpretata da un bravissimo Alan Ladd. Aiutato anche dal bianco e nero, il film appariva come più vicino allo spirito del romanzo anche se c’era minor cura nella ricostruzione del periodo.

Nel 1974 Jack Clayton su di una sceneggiatura scritta da Francis Ford Coppola aveva realizzato un poco convincente film in cui i pur bravi Robert Redford, Mia Farrow e Bruce Dern non erano riusciti a rendere memorabile il film. Forse solo Mia Farrow aveva letto il suo personaggio senza tradirlo.

Ora Baz Luhrmann ha realizzato questo film che sicuramente sarà un trionfo al botteghino ma che difficilmente potrà convincere i cinefili e gli appassionati di Francis Scott Fitzgerald.
Per lo sfortunato scrittore che morì dimenticato da Hollywood a 44 anni  (che era riuscito a sposare la sua Zelda solo dopo la pubblicazione del suo romanzo di maggiore successo, Zelda che morì nell’incendio dell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverata) un altro tradimento dal cinema che lui amava e ch non lo ha mai completamente capito.

TRAMA

1922, New York. Nick Carraway, aspirante scrittore del Midwest, giunge nella Grande Mela sospinto dal desiderio di divenire ricco e famoso. Convive con la dubbia moralità, la musica jazz, la delinquenza che sembra non incidano sul suo ottimismo. Il suo vicino di casa Jay Gatsby lo coinvolge nell’accattivante mondo dei super-ricchi dove tutto è fatuo in cui ognuno recita un personaggio rispettato e non messo in discussione dagli altri. Ne diviene amico ma ben presto scopre che l’uomo lo ha avvicinato perché innamorato della cugina che spera lui possa permettergli di riconquistare. La donna è tradita dal marito miliardario con volgare moglie di un garagista e, incontrando dopo 5 anni l’ex tenente di cui si era innamorata, decide di mollare tutto e di tornare con lui. Ma…


di Redazione
Condividi