Il grande carro

Le recensioni di Il grande carro, di Philippe Garrel, a cura di Cristiana Paternò ed Emanuele Di Nicola.

La recensione
di Cristiana Paternò

Philippe Garrel cita Jean-Luc Godard: “Un buon film di finzione deve anche essere un documentario su qualcosa. Nella disgregazione di una compagnia di artisti-burattinai, io vedo la metafora di un mondo dove le tradizioni stanno morendo”.

Così costruisce Il grande carro, opera raffinatissima, vincitrice dell’Orso d’argento alla Berlinale 2023 per la Migliore Regia e ora in sala con Altre Storie e Minerva Pictures.

Il ‘Grande Carro’, come si sa, è una costellazione, ma in questo caso è il nome del teatro di marionette gestito da un padre affettuoso (Aurélien Recoing) insieme ai suoi tre figli, i fratelli Louis (Louis Garrel), Martha (Esther Garrel) e Lena (la giovanissima Lena Garrel), con la nonna (Francine Bergé) che realizza i pupazzi fin da quando era giovane, dopo essersi staccata dalla sua famiglia borghese per seguire l’amore con un acrobata e una vita nomade e avventurosa.

Tutti insieme appassionatamente formano una compagnia gioiosa che ha il valore della libertà e della ribellione tatuato nella pelle, trasmesso dai capostipiti. Insieme allestiscono e provano spettacoli dal sapore fiabesco e fuori dal tempo, con principesse, re e furfanti che bastonano e poi vengono bastonati. Ma gli accadimenti anche drammatici si susseguono spezzando il sogno, tra nostalgie incurabili e desiderio di inaugurare nuovi percorsi in una commistione magica e malinconica tra arte e vita.

Per il 75enne Philippe Garrell, autore di titoli di culto assoluto come Innocenza selvaggia, Les amants réguliers, La frontière de l’aube e Un été brûlant, questa è stata innanzitutto l’occasione per riunire i suoi tre figli, tutti e tre attori, attraverso un soggetto in cui riverbera la complessità dell’essere figli d’arte, eredi di una condizione che può anche stare stretta (lui stesso proviene da una famiglia di marionettisti).

La sceneggiatura scritta con Jean-Claude Carrière, Arlette Langmann e Caroline Deruas Peano, ripercorre eventi quotidiani a volte banali, difficoltà economiche, amori e tradimenti, la nascita di un bambino non voluto dal padre Pieter (Damien Mongin), un narciso che rincorre una carriera da pittore ma non ha granché talento e che abbandona Hélène, la madre di suo figlio (Mathilde Weil), all’indomani del parto, per una ragazza conosciuta nella compagnia di marionette (Asma Messaudene).

Questa storia corre parallela alla vicenda centrale e si interseca con essa. Ci sono eventi luttuosi che sconvolgono l’equilibrio magnifico, come i temporali possono devastare ciò che l’essere umano ha costruito, ma come i temporali sono eventi naturali, che vanno accettati. Ognuno prenderà la propria strada nella consapevolezza che anche la morte è un accadimento del tutto inscritto nella natura delle cose e dell’universo, e dunque la morte può essere sconfitta come nella finzione fa Pulcinella. La fotografia del grande dop Renato Berta conferisce a questo romanzo familiare una luce calda e soffusa e, per una volta, Garrel rinuncia al bianco e nero che spesso l’ha contraddistinto in un film che ha il sapore di un lascito artistico per le generazioni future.

La recensione
di Emanuele Di Nicola

Sarebbe fuorviante ridurre a una questione di famiglia Le grand chariot, l’ultimo film di Philippe Garrel presentato in concorso alla Berlinale 2023. È molto di più e anche altro. Certo, la storia è quella di una famiglia, un nucleo di burattinai guidato dal padre (Aurélien Recoing) e composto dai figli (che sono in gran parte figli dello stesso Garrel, ovvero Louis, Léna, Esther). Con loro c’è la magnifica figura della nonna, incarnata in Francine Bergé. Il teatro delle marionette, però, si avvia al tramonto: i bambini vengono ancora intrattenuti dal talento dei burattinai, eppure sono gli ultimi fuochi.

Garrel lo mostra con una doppia sequenza semplicemente magistrale: la prima è un campo e controcampo, in cui vediamo lo
spasso dei bimbi davanti alle storie di principi e principesse, e dall’altra parte il frenetico divertimento di chi anima i pupazzi sotto al palco; nel secondo caso ecco uno struggente fuori campo, all’improvviso lo spettacolo si interrompe perché il padre ha avuto un malore. I bambini non capiscono perché è durato troppo poco.

Con la scomparsa del genitore, e a seguire i segni di demenza della nonna, il nucleo sembra sfaldarsi. Alcuni lasciano il teatrino e trovano la fama (Louis Garrel), altri tentano la loro arte – la pittura – ma falliscono, le sorelle si lanciano in un gesto di resistenza e provano a tenere aperto lo spettacolo. Bisogna scrivere pezzi nuovi, modernizzare le marionette, dice l’una all’altra; la risposta è che i classici sono già moderni, non c’è bisogno di aggiornare nulla. Nel frattempo intorno gli amori sbocciano e finiscono, in modo tanto drammatico quanto lieve e paradossale, come Louis che finirà per accudire il figlio dell’amico.

Non è un fatto privato, dunque, questo film, anzi: è uno sguardo sull’amore e la morte, ma soprattutto sullo scorrere del tempo inesorabile che si porta tutto via. Può esistere ancora il teatro delle marionette? E il cinema? Philippe Garrel gira a cuore aperto, dalla sua posizione di regista maturo che guarda in faccia la fine, la accetta e perfino sorride. Un film delicato come il movimento della vita. Un regista ineffabile che ormai conosce il mistero del cinema, e sa racchiudere la scomparsa e la resistenza nell’arco di una morbida dissolvenza.


di Cristiana Paternò ed Emanuele Di Nicola
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