Il giovane favoloso

La Storia pulsa sullo sfondo, con le sue rivoluzioni e  restaurazioni, mentre al centro della scena e del racconto, senza un attimo di tregua, c’è la “storia di un’anima”. Ancora una volta, però, Martone parla di noi e del nostro tempo presente.
Il film è la storia di un duplice viaggio. Certo, in primo piano, c’è il viaggio, reale,  ma a un tempo metaforico, di Giacomo Leopardi (1798-1837), dalla piccola Recanati alla Napoli che lo avrebbe infine accolto e che conserva le sue spoglie. Ma è anche un altro viaggio del regista, dall ‘800 ai giorni nostri: tragitto non privo di insidie, forse più che per Noi credevamo. Martone lo intraprende guidato da precisi punti di riferimento: Anna Maria Ortese (dalla quale trae anche il titolo del film) ed Enzo Moscato, antico complice sin dai tempi di Rasoi (i testi della Ortese e di Moscato, erano stati  alla base de L’opera segreta, un suo spettacolo del 2004). Per il viaggio, iniziato dunque già parecchi anni fa, Martone convoca ancora a sé i suoi storici compagni di strada (molti dei quali impegnati di recente anche nella trasposizione delle “Operette morali”) e riannoda a ritroso le fila di tanti percorsi tra i diversi linguaggi artistici che, come forse solo Visconti in Italia,  ha saputo, e sin da giovanissimo, attraversare. Ma, come scrive Roberto De Gaetano nella prefazione a “Mario Martone. La scena e lo schermo” (curato insieme a Bruno Roberti, Donzelli, 2014), c’è piuttosto nel suo cinema il richiamo a un “etica dello sguardo” dalla chiara matrice rosselliniana, “che fa di ogni inquadratura un’inquadratura necessaria”.
E’ questa tensione etica che parla – e a volte grida attraverso i suoi personaggi, come nel caso di Leopardi – agli spettatori, adulti o ragazzi che siano. Martone non cerca la verità, ma un’altra Storia, che non sia solo quella “ufficiale”. Così ci fa scoprire il Risorgimento “che i libri di storia non hanno raccontato” e le sue perduranti contraddizioni, che per molti versi hanno bloccato lo sviluppo sociale, economico e culturale italiano. Così, ci fa riscoprire quel poeta che i libri non ci hanno forse saputo spiegare davvero e – soprattutto – ce ne fa ascoltare la voce. I versi di Leopardi – una precisa scelta estetica che giustamente Martone insieme alla fidata complice Ippolita di Majo rivendica – sono infatti “agiti”, stanno sempre “in campo” (tranne quelli de “La ginestra”, nel finale); sono, possiamo dire, incarnati da Elio Germano, qua artefice di una prova memorabile.
La figura di Leopardi emerge nel film a tutto tondo, nella sua complessità di uomo e di intellettuale. Come da sempre nella sua visione artistica, Martone esplora i “sintomi”, anche quelli più brutalmente fisici, non certo per spirito morboso, ma per rivelare le patologie nascoste e per dare senso al “simbolo”, dunque al gesto e alla parola dell’attore, al suo rapporto con il corpo, con lo spazio e con il contesto. Mostrare la deformità, ovvero la “non conformità” del fisico del poeta (tema anch’esso assai attuale, in tempi di “leadership mediatica seduttiva”) è dunque necessario come mettere a fuoco i vincoli culturali e il destino sociale contro cui Leopardi decise di ribellarsi scegliendo l’auto-esilio, ma restando un outsider, estraneo alle logiche del “mercato” letterario del tempo. Una “fuga senza fine”, sempre sostenuta dall’amico e complice, intellettuale ed affettivo, Antonio Ranieri (un efficace Michele Riondino): dalla prigione labirintica e anaffettiva della casa-biblioteca di Recanati (i tratti gelidi e arcigni della madre, resi assai bene da Raffaella Giordano, riemergeranno come incubo e memento nel corpo di un gigantesco Golem d’argilla femminile); dieci anni dopo, dai salotti mondani e dalle trame dei letterati di Firenze; poi dalle estenuanti e a tratti comiche “anticamere” nei palazzi del potere romano (e pontificio). La sua ansia di libertà e di utopia troverà propria meta nei dedali dei vicoli napoletani, anarchici e inaccessibili anche alla repressione borbonica (ben nota però al Ranieri).
Il giovane favoloso inizia e finisce come un sogno, dalle  scene dei piccoli fratelli che giocano nel giardino di casa, sino alla fusione del corpo ormai rattrappito del poeta nel fuoco del vulcano e nel firmamento celeste. Dal tempo fermo di Recanati, la narrazione acquista man mano velocità, sinchè a Napoli, nel ventre della grande madre partenopea, lo spettatore precipita in un vortice abissale, come quello che si spalanca davanti a Leopardi, nel “lupanare” della città bassa dove cercherà come vano risarcimento l’amore a pagamento (una sequenza strepitosa, ispirata qua a Partitura di Moscato). L’ardita e geniale colonna sonora che mescola, con effetti di spiazzamento, la partitura elettronica dell’artista berlinese Sascha Ring alla musica colta e a quella popolare, si impasta qua ulteriormente con le ninna-nanne fiabesche ed inquietanti di Iaia Forte e le litanie delle processioni religiose capitanate proprio da Enzo Moscato (in abito talare) che tentano invano di esorcizzare il colera che devasta la città.

Un film al tempo stesso onirico e materico, poetico e realistico (come il cinema che pratica e al quale aspira). Un film avvolto dal montaggio sicuro di Jacopo Quadri e illuminato dall’eccellente fotografia di Renato Berta, che spazia dai tagli di luce lunare sul volto di Leopardi, ai colori saturi del cielo e del sole mediterranei, ai gorghi neri e ai chiaroscuri caravaggeschi (certo ispirati anche da Martone, autore dell’intenso documentario Caravaggio, ultimo atto, 2005). Un film che regala allo spettatore sequenze magistrali, dove il linguaggio del cinema aderisce compiutamente all’emozione del racconto, e che resterà per questo nella nostra memoria.

TRAMA

Leopardi è un bambino prodigio che cresce sotto lo sguardo implacabile del padre, in una casa che è una biblioteca. La sua mente spazia ma la casa è una prigione: legge di tutto, ma l’universo è fuori. In Europa il mondo cambia, scoppiano le rivoluzioni e Giacomo cerca disperatamente contatti con l’esterno. A ventiquattro anni, quando lascia finalmente Recanati, l’alta società italiana gli apre le porte ma il nostro ribelle non si adatta. A Firenze si coinvolge in un triangolo sentimentale con Antonio Ranieri, l’amico napoletano con cui convive da bohémien, e la bellissima Fanny. Si trasferisce infine a Napoli con Ranieri dove vive immerso nello spettacolo disperato e vitale della città plebea. Scoppia il colera: Giacomo e Ranieri compiono l’ultimo pezzo del lungo viaggio, verso una villa immersa nella campagna sotto il Vesuvio.


di Sergio Di Giorgi
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