Il gioiellino

Dopo l’enorme  successo, nel 2007,  de La ragazza del lago (finanche un po’ inaspettato per un’opera prima),  Andrea Molaioli torna sulla ‘scena criminis’ di molti delitti nostrani,  quella sconfinata provincia italiana sempre più dominata, a nord come a sud, da avidità, ferocia,  omertà;  un  impasto di segreti e bugie che restano magari inconfessati, ma  servono a nutrire   la morbosità, altrettanto delittuosa,  e gli ascolti  dei talk show televisivi.  La lunga “notte italiana” era iniziata forse proprio là, lo aveva ben compreso, venti anni prima, Carlo Mazzacurati. Con quel suo folgorante esordio, Molaioli -grazie anche al proficuo apprendistato svolto, tra gli altri, proprio accanto a Mazzacurati- aveva dimostrato di saper ben  raccontare  (e con sguardo profetico) quella particolare geografia umana; come pure di saper gestire attori di peso e mescolare i generi, virando una tipica vicenda da “giallo” in un noir esistenziale e quasi metafisico. Ma  la sfida e le insidie narrative di un progetto come “Il gioiellino”  non erano di poco conto, nel passaggio da una storia di  cronaca  quotidiana allo scenario ben altrimenti rilevante ed esemplare, sul piano sociale,  del “crac Parmalat” – ovvero del primo vero grande affaire cresciuto all’ombra della cosiddetta “seconda repubblica”, ma nato nella prima e figlio dello storico e perverso intreccio italiano tra politica,  economia, finanza, media (e, perché no, gioco del calcio).

Come ha spiegato – e rivendicato (nell’incontro seguito all’anteprima milanese del film, presenti gli interpreti principali e la produttrice Francesca Cima), il regista (insieme ai co-sceneggiatori) ha scelto una chiave interpretativa ben precisa, che però, a nostro avviso, finisce per segnare il limite dell’opera. Evitando in primo luogo di inseguire la cronaca giudiziaria e gli stilemi del  thriller finanziario il film (che non a caso parte dall’epilogo, almeno sul piano investigativo, della vicenda) ha inteso restituire il clima antropologico dell’Italia (almeno di quella tra il 1992 e il 2003) attraverso i volti, i gesti, le parole dei protagonisti. Puntuali, in questo senso, le indicazioni  per la coppia (ben in parte e assai affiatata) di interpreti principali  (Remo Girone che è Amanzio Rastelli, ovvero Callisto Tanzi; Toni Servillo che è Ernesto Botta, ovvero il fido braccio destro, il ragionier Tonna): essere dei personaggi “umani”, prima e oltre che dei “mostri” (sia pure con il colletto bianco). Secondo la sceneggiatura, il personaggio del tycoon parmense Rastelli  doveva essere “soave e spietato”, rassicurante e simpatico, come si conviene a un uomo in cerca, arrogante prima, infine disperata  (ivi compresa una gustosa sequenza in quel di Arcore), di  alleanze presso i diversi establishment politico-economici, ma anche buon padre di famiglia e dispensatore di valori aziendali, da omaggiare nelle passeggiate domenicali sul corso. Dal canto suo il fido Botta, doveva incarnare tutta la ruvidità e spigolosità dell’uomo fatto da sé, ma anche – per l’incapacità a concepirsi al di fuori della dimensione professionale –  la profonda solitudine e totale anaffettività, come dimostrano le sue relazioni sessuali, da quelle occasionali in ufficio al ben più ambiguo rapporto con la giovane e arrivista nipote di Rastelli  (la convincente, e conturbante, Sarah Felberbaum). Ma questa operazione di umanizzazione dei personaggi principali,  al di là dei loro ruoli pubblici, non raggiunge la finezza dello scavo psicologico del primo film  (che, lo ricordiamo, beneficiava dell’intelligente trasposizione dal romanzo di Karin Fossum  ad opera di Sandro Petraglia) e rischia (come lo stesso pubblico dell’avanprima milanese ha testimoniato) di renderli in fondo un po’ troppo “simpatici”. Manca poi quasi del tutto, sempre rispetto a La ragazza del lago (mancanza che si avverte anche sul piano squisitamente formale), la forza muta e “corale” del paesaggio naturale e umano (quella comunità chiusa ed isolata che in quel film era la vera testimone del delitto). E non tanto perché le vicende si svolgono, quasi claustrofobicamente, tra il chiuso di asettici uffici, notoriamente assai poco cinematografici, e  i brevi tragitti casa-lavoro nella quieta e signorile cittadina (nella realtà Acqui Terme, per via del  sostegno offerto dalla Film Commission piemontese). Ma soprattutto perché la focalizzazione narrativa sui due attori protagonisti toglie spazio e profondità all’analisi di quel  clima sociale che pure era nelle intenzioni del regista.

Resta peraltro il fatto che Il gioiellino getta luce su quel senso di avidità e voglia di  impunità, anch’essi assai provinciali,  che animava un’azienda familiare lanciata senza alcuna remora e vergogna alla conquista dei mercati globali. E  si segnala come la prima opera filmica italiana che affronta –illustrandone anche con efficacia divulgativa i meccanismi tecnici-  quel processo di “finanziarizzazione” dell’economia che nasce da lontano, nel tempo e nello spazio, ma di cui l’Italia, col senno di poi, era  stata interessante laboratorio. E  ciò ben prima dell’esplosione della crisi del 2008, su cui  anche il cinema indipendente americano giunge ora a interrogarsi:  si pensi al documentario fresco di Oscar  Inside Job di Charles Ferguson, già al Festival di  Cannes 2010, e a Margin Call del regista americano di origine indiana J.C. Chandor che era a Berlino 2011; opere che ci auguriamo di vedere presto anche sui nostri schermi.


di Sergio Di Giorgi
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