Il giardino delle vergini suicide

La recensione di Il giardino delle vergini suicide, di Sofia Coppola, a cura di Mariella Cruciani.

Grazie alla Cineteca di Bologna torna in sala, dopo venticinque anni, Il giardino delle vergini suicide, potente film d’esordio di Sofia Coppola, contenente già due temi fondamentali del suo cinema: l’oppressione femminile in una gabbia apparentemente dorata e il confronto tormentato con le figure genitoriali.

Per la sua opera prima, la regista americana parte dal romanzo omonimo del 1993 di Jeffrey Eugenides: la storia di cinque sorelle adolescenti nel Michigan degli anni Settanta che, oppresse dalle restrizioni, dai divieti, dall’incomunicabilità familiari, decidono di togliersi tutte la vita, nel giro di un anno.

La prima ad uccidersi è Cecilia ma, dopo il lutto per lei, la famiglia si sforza di tornare alla normalità: il padre (James Wood), insegnante di matematica, riprende gli impegni scolastici, la madre (Kathleen Turner), casalinga, si occupa delle figlie, le ragazze si interessano ai loro coetanei.

In questa prima fase, si pensa che si possa davvero ricominciare, soprattutto quando entra in scena Trip, il più bello della scuola, per corteggiare Lux (Kirsten Dunst), una delle sorelle. Il ragazzo, sicuro di sé e carico di vitalità, irrompe nella famiglia rigida e conservatrice come l’Ospite inatteso in Teorema di Pasolini. Le cose, però, non andranno come sperato e Trip contribuirà, al contrario, a far precipitare la situazione…

I film di Coppola – a partire da questo – sono spesso considerati sontuosi e algidi ma, come ha dichiarato Jane Campion, che annovera Il giardino delle vergini suicide tra le sue pellicole preferite, “l’attenzione alle apparenze può trarre in inganno. Il lavoro di Sofia è, invece, potente perché ha radici profonde”.

 In questo caso, se si va a scavare, si scopre che, anni prima, la regista aveva vissuto sulla propria pelle una grave perdita: quella del fratello maggiore Gio, morto in un incidente. In seguito a ciò, la giovane Coppola si trasferì, per un periodo, a Parigi con la figlia dell’attore Martin Landau e la fidanzata di Gio. Raccontò, poi, Landau: “Loro due, sdraiate pomeriggi interi in uno stato di stordimento, mi hanno ricordato molto quello che verrà poi rappresentato ne Il giardino delle vergini suicide: l’apatia del lasciarsi sopraffare dalle emozioni, un certo tipo di interiorizzazione della tragedia”.

Le settimane successive, però, trascorsero “mangiando croissant, bevendo Orangina e tirando l’alba in discoteca. C’era consapevolezza della perdita e della situazione ma eranoo comunque adolescenti giocose che guardavano i ragazzi e i vestiti eleganti” – ha concluso Landau. Con queste citazioni biografiche non si vuol, certamente, ridurre il film alla mera realtà ma sottolinearne la verità e l’urgenza che, ancora oggi, colpiscono in pieno lo spettatore, costringendolo a riflettere su famiglia, desiderio, adolescenza, società. I colori smorti, l’aria asettica, la luce di taglio esprimono bene il sentimento di vuoto di una classe media imbalsamata e senza prospettive, per sé e per i suoi figli.


di Mariella Cruciani
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