Il faraone, il selvaggio e la principessa

La recensione di Il faraone, il selvaggio e la principessa, di Michel Ocelot, a cura di Arianna Vietina.

Tre fiabe per il pubblico di oggi, raccontate negli stili di un animatore che si è già fatto apprezzare dalle platee internazionali e Italiane, che qui produce una sorta di summa. Ogni episodio riprende uno stile che ci è familiare, da Kiriku e la strega karabà ad Azur e Asmar, passando per le ombre cinesi di Principi e Principesse: disegno bidimensionale, per personaggi anche piuttosto minimali, e variopinti sfondi e decori delle scene, che scorrono uno dopo l’altro come fondali a teatro.

Le tre storie si svolgono in momenti storici e ambientazioni differenti, ma tutte trattano il rapporto conflittuale tra le figure di potere: un principe che parte alla conquista dell’Egitto perché solo con la qualifica di faraone potrà sposare la principessa amata, ma questo vincolo è imposto dalla regina madre che non vuole perdere la sua autorità; un re del tardo medioevo che ordina di far uccidere suo figlio bambino perché ha liberato un sovrano rivale tenuto prigioniero, ma il figlio riesce a sfuggire al giudizio e torna a corte dopo essere cresciuto tra gli alberi come il Barone Rampante; un principe costretto a lasciare il suo regno si reinventa venditore di frittelle e conquista così la principessa, che a sua volta è tentata da abbandonare il trono.

Sono storie in cui i giovani eredi si discostano dall’autorità dei genitori regnanti, apprezzano altri aspetti della vita che possono conoscere tra la gente e si battono per la creazione di una nuova gerarchia dei valori, con al primo posto l’amore, la condivisione, la pace, i piaceri più semplici. A ben vedere questa è una rappresentazione che parla delle giovani generazioni degli anni 2000, che non inseguono più la posizione di lavoro come massima aspirazione, ma preferiscono il part time per poter coltivare le proprie passioni e magari inventarsi una professione, uno small business o tentare di costruirsi un’identità da influencer.

Questi racconti quindi sono fiabe aggiornate, incardinate sugli elementi più classici, ma ispirati a una sensibilità nuova. Questo concetto di base è esplicato anche nella cornice che unisce i tre racconti, in cui una gigantessa attorniata da spettatori chiede cosa questi vorrebbero sentirsi raccontare e soddisfa i loro desideri inventando suddette storie. Un meccanismo, già proprio di altri film di Ocelot, che contiene una precisa riflessione teorica su come i racconti orali viaggiano nel nostro contemporaneo, prendendo a piene mani da tradizioni antecedenti ma anche plasmando i prodotti sul gusto degli utenti. Vi è una sorta di personificazione fiabesca e bonaria di un algoritmo dall’aspetto materno. Il film dà molti spunti di riflessione, ma mantiene allo stesso tempo la capacità di essere leggibile e divertente per un pubblico di bambini, anche per la divisione interna a episodi che certamente facilita anche i più piccoli, e speriamo possa assicurare una buona circuitazione al tutto.


di Arianna Vietina
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