Il cuore altrove
Comincia bene, molto bene, Il cuore Altrove, ultima fatica di Pupi Avati sballottato, nel suo cinema fatto di sguardi malinconici all’indietro, di amarissime riflessioni sul presente e di inquietanti ingressi nell’incubo, tra il passato remotissimo e quello più prossimo. Comincia con quell’ironia gentile, che da tempo è stile, nel dipingere quasi in punta di piedi la prima metà del secolo scorso, più di ogni altro periodo d’elezione del regista bolognese, e donandoci con tenerezza e condivisione i suoi perdenti timidi e indifesi.
Tra una Roma papale e ignorante e una Bologna ricca e colta, avviene il viaggio di Nello Balocchi, figlio dei sarti pontifici e insegnante di latino e greco; è un viaggio alla ricerca di un’educazione sentimentale che il padre, uno straordinario Giancarlo Giannini, vorrebbe molto prosaica e pratica onde affidare la sua avviata sartoria in buone mani maschili, e che invece si trasforma nell’ennesimo apologo amaro sulla natura dell’amore e sulla volatilità dei sentimenti di fronte all’apparenza. Nello (Neri Marcorèmisuratissimo quasi come un colpo trattenuto che rischia l’implosione) finisce per innamorarsi perdutamente della bellissima, ricchissima e viziatissima Angela (a Vanessa Incontrada bastava essere splendida e ci riesce senza sforzo) temporaneamente non-vedente; recuperata la vista, non è difficile immaginare come possano evolversi i fatti, tenendo presente, tra l’altro, l’allergia di Avati nei confronti dei finali troppo lieti e consolanti.
Un film che parla dell’innamoramento, dell’incomunicabilità tra testa e cuore (relegato sempre in un “altrove” piuttosto sfuggente), servendosi di un’idea molto semplice e, per la verità, non troppo originale. Dopo un inizio, come detto, che lascia intravedere e sperare molti punti in comune con le pellicole migliori dell’autore, quegli affreschi così precisi e veri, nostalgici e strazianti, garbati e attualissimi (Regalo di Natale, Storia di ragazzi e di ragazze, Festa di laurea, Una gita scolastica…) si segue il filo di una piccola trovata che lascia un po’ in disparte, ed è un peccato, ambientazioni e personaggi che si vorrebbe conoscere meglio, frequentare di più: scompaiono, quasi, il coinquilino napoletano Domenico con la sua focosa partner Jole, e l’affittuaria Arabella, e tutti le altre tenere macchiette che popolano gli ambienti attraversati distrattamente dal protagonista innamorato. Avati si conferma straordinario direttore di attori, oltre che attento sceneggiatore e battutista di qualità, soprattutto nelle uscite surreali dei romani orgogliosi e diffidenti contro tutto ciò che viene da nord.
La sua poesia fa il resto, nel salvare un film che poteva scivolare nel banale, e che invece rimane gradevole, da gustare con il sorriso sulle labbra ed una lacrima, una sola, pronta per ogni evenienza; anche se poi non servirà, dal momento che basta prenderla con filosofia. È ancora la filosofia semplice di chi sa che “morto un Papa se ne fa un altro”, il cinismo bonario del sarto, sicuro che il lavoro non gli mancherà mai, ma anche quello, necessario, dell’amore e del cuore (inscindibili anche per necessità di rima) che scacciato da un luogo se ne vola via per posarsi altrove.
di Redazione