Il comandante e la cicogna

Dopo la parentesi realistica dei melodrammi impegnati di Giorni e nuvole e Cosa voglio di più, con questo suo ultimo cortometraggio il milanese Silvio Soldini torna a battere le strade a lui forse più congeniali della commedia surreale in cui la componente quasi fiabesca viaggia mano nella mano con l’intenzione di incidere sul presente raccontandolo nelle sue storture col tono leggero di chi non vuole preoccupare troppo pur inducendo a riflettere su ciò che ci circonda. Tanto per intenderci quel mix felice di ingredienti che sorreggeva e rendeva originale e godibile un prodotto come Pane e tulipani.
Al centro della vicenda ambientata in una Torino non immediatamente riconoscibile ma sufficientemente svagata e astratta per fare da fondale coerente al tutto c’è Leo Buonvento, idraulico napoletano efficientissimo nel sistemare i guasti agli impianti dei propri clienti ma impotente di fronte alle troppe falle che la vita non smette di aprirgli giorno dopo giorno nelle tubature dell’esistenza: come se non bastasse l’aver perso la moglie Teresa (che comunque lo frequenta assiduamente apparendogli sempre in costume da bagno e pareo per dar vita con lui a siparietti surreali di natura pedagogico-esistenziale) e dover tirar su da solo una figlia adolescente e un ragazzino svagato che va male a scuola e preferisce dedicare il proprio impegno ad allevare in segreto una cicogna con tanto di nome, il poveraccio scopre che la figlia Maddalena è diventata un’attrazione sulla rete perché finita in un filmino semiporno postato malandrinamente su Youtube.
Deciso a proteggerla, si rivolge all’avvocato Malaffano (magnifico nomen omen), maneggione e arrogante quanto basta per sintetizzare in sé tutto il malcostume di questa Italietta cafona che subiamo ogni santo giorno. Ed è proprio nello studio di questo condensato di tutti i vizi di inizio millennio che Leo conosce per caso Diana, pittrice talentosa e squattrinata che per sbarcare il lunario gli sta affrescando una parete assecondandone passivamente le manie di grandezza pur di racimolare i soldi per pagare l’affitto. Pigione che è un dettaglio non irrilevante nel plot in quanto connette alla vicenda vagamente corale un altro personaggio, il lunare Amanzio che, dopo aver lasciato il lavoro da dieci anni e vivendo di espedienti vari, non è soltanto il padrone di casa di Diana, ma circola per le strade della città facendo il “sensibilizzatore metropolitano”, ovvero cercando di mettere sull’avviso i concittadini circa gli inganni di vario tipo che la società subdola dei consumi prospetta presentandoli come facili scorciatoie per la felicità. Lui e il piccolo Elia, “diversi” dispari in un mondo di omologati inevitabilmente si attraggono e si incontrano dando vita a un’insolita amicizia le cui manifestazioni dialogiche sono il corrispettivo naturale e stradale dei siparietti tragicomici tra Leo e il fantasma della moglie.
Come se tutta questa carne narrativa al fuoco non bastasse, Soldini (insieme a Doriana Leondeff e Marco Pettenello) infarcisce la già ricca sceneggiatura con un ulteriore tocco di surrealismo spiritato: a osservare l’agitarsi vano dei personaggi in scena sono infatti le statue di alcuni Grandi della Patria offesa che, sconcertati dal malcostume imperante ma anche dai pessimi esiti dei loro sforzi di fondatori e fari culturali, commentano gli eventi come spettatori esterni di un dramma che non capiscono appieno pur chiosandone diffusamente gli sviluppi. Ed è così che Garibaldi – chiamato dispregiativamente “Comandante” dalla statua che la città ha eretto a un non meglio identificato ma simbolicamente identificabile Cavalier Cazzaniga in pieno odore di berlusconismo sfrenato e destinato però a finire decollato – assiste sconsolato dall’alto della sua bronzea immobilità, interrogandosi sullo scempio del presente come esito imprevedibile del glorioso passato di cui era stato protagonista assoluto dividendo le ansie della propria sete di libertà e giustizia tra due Mondi. Al Garibaldi nazionale fanno eco altri tre miti inossidabili della storia e della cultura patria, ovvero Giuseppe Verdi, Leonardo da Vinci e Giacomo Leopardi, tutti uniti nel celebrare il disgusto di quanto vedono di fronte a sé, e incapaci di accettare che il mondo abbia preso la piega amara che al momento ne è il solo tratto caratteristico della personalità.
Deciso a tastare il polso a un paese irreversibilmente malato di una depressione forse senza cura, Soldini cerca di farlo affidando la sua indignazione di fronte al troppo del reale al tono della commedia umana ingentilita dai toni e dai colori della fiaba. Le intenzioni, come spesso accade agli uomini di cinema che si servono dell’immagine per riflettere sullo stato delle cose presenti senza darsi troppa pena del responso dei botteghini, sono certamente delle migliori. Il fatto è che il risultato dell’intera operazione non è affatto all’altezza.
Inseguendo a sua volta il corteggiatissimo fantasma del cinema “d’autore” a tutti i costi, Soldini finisce col ridurre le magagne del paese e il suo dilagante imbarbarimento a una farsa in cui la verità dell’indignazione non può essere presa troppo sul serio per l’eccessiva quantità di elementi che poco c’entrano col cinema che reagisce infuriato alla deriva degli eventi, ma che fanno sembrare roba da poco l’oggetto stesso di quella rabbia repressa cui sceneggiatura e immagini dovrebbero dare la stura. Ed è un peccato perché Il comandante e la cicogna avrebbe avuto tutti gli ingredienti per essere un film denso e profondissimo in cui un autore di razza fa i raggi x a un paese scegliendo la scorciatoia della commedia senza però mai dare l’impressione di prendere per questo sotto gamba la gravità della situazione presente.
A partire dalla metafora già contenuta nel titolo, nel quale “comandante” allude indirettamente al degrado di una classe politica indecente (il Cavalier Cazzaniga versus l’Eroe dei due Mondi) e capace solo di disprezzare i valori del passato per buttare fumo sulla propria inconsistenza a ogni livello, mentre la presenza della “cicogna” richiama non solo l’animale che il piccolo Elia alleva in segreto ma indica soprattutto la voglia di leggerezza e di ariosità che in molti vorrebbero di nuovo respirare intorno a sé e riassume metaforicamente la speranza di un domani in cui un paese piegato e piagato dal malcostume imperante possa risollevarsi spiccando il volo verso un futuro di palingenesi possibile.
Su tutto domina poi la presenza dell’Italia intesa sia come Patria perduta nel suo sfilacciamento in mille rivoli regionalistici e rivendicazioni particolaristiche ma anche come destino verso cui la risvegliata coscienza civile (su cui vegliano insonni le statue parlanti dei padri) dovrebbe spingere gli animi dei cittadini di buona volontà. Un’idea questa che nel film viene ribadita a più riprese: non solo nella già citata presenza dei grandi del passato, ma anche nel voler ribadire con l’insistita e marcata presenza di moltissimi accenti regionali da commedia degli anni ’60 non solo la poliedrica varietà antropologica del paese ma soprattutto il suo essere fondato su differenze locali che hanno dato vita nei secoli a una ricchezza globale senza pari nel mondo.
Linguisticamente parlando, il film è infatti una mini encicolpedia di inflessioni regionali: si va dal napoletano dell’idraulico al genovese della moglie Teresa, dal milanese fastidioso del Cavalier Cazzaniga e dell’avvocato Malaffano (a conferma di come tutto il male sia di marca meneghina) al triestino rotondo di Amanzio, dal torinese di Diana al toscano di Leonardo, dall’emiliano di Verdi all’italiano “nuovo” dell’aiutante cinese del protagonista Leo.
Deludente in questa sua incertezza costante tra le troppe forze che lo agitano spingendolo in direzioni diverse, il film di Soldini ha forse il meglio di sé in un cast che vede allineati alcuni dei migliori solisti che il cinema di casa nostra possa vantare in questo periodo: se Mastandrea – quattro film in uscita in questo anno solare per lui di enorme impegno lavorativo – ha la faccia adeguatamente e naturalmente scornata per interpretare le piccole ansie dell’uomo qualunque che è il suo idraulico, Alba Rohrwacher ha i toni giusti per la sua Diana sconfitta prima ancora di iniziare a combattere coi mulini a vento di una società sorda al merito e sensibile solo agli imperativi del dio denaro, così come l’opulento Battiston nei panni dello stralunato Amanzio ribadisce una lunga militanza alla corte di Soldini, mentre fa piacere vedere Zingaretti in questo suo nuovo passo (l’avvocato faccendiere sintesi di tutti i troppi ceffi della sua razza) verso la definitiva “demontalbanizzazione” che sta cercando di imporre alla propria immagine. Per finire con le “voci” dei padri della patria, con Neri Marcoré che presta i suo timbri multiformi a Leonardo (già testato nei molti spot TIM di qualche tempo fa) e a Leopardi, mentre Gigio Alberti si supera regalando al suo Cavalier Cazzaniga un odioso birignao meneghino con velate allusioni foniche al parlato berlusconiano e Favino s’inventa un Garibaldi che borbotta i suoi mugugni risentiti in un ligure da commedia dell’Arte.
di Redazione