Il cinema in capitoli

Sempre più nel cinema d'autore contemporaneo i film presentano suddivisioni in capitoli: Paola Casella ce ne spiega le ragioni.

Da qualche tempo, il cinema d’autore suddivide in capitoli la propria narrazione: è il caso di La persona peggior del mondo come di Storia di mia moglie, che attribuiscono titoli formali in sovrimpressione alle sezioni in cui è diviso il racconto, ma anche di What Do We See When We Look at the Sky? o Illusioni perdute, in cui invece è una voce fuori campo a rimarcare la scansione letteraria degli eventi.

Potrebbe sembrare una maniera antica, da romanzo ottocentesco, di conferire un ordine prestabilito alla realtà: del resto Illusioni perdute e Storia di mia moglie sono basati su romanzi formalmente divisi in capitoli, l’uno ottocentesco a firma di Honoré de Balzac, l’altro novecentesco ad opera di Milán Füst. E anche Tromperie – Inganno è ripartito in sezioni titolate, compreso il formale epilogo finale, a creare visivamente un ordine narrativo mentre racconta il romanziere Philip Roth.

Invece l’intento, e certamene il risultato, sembra opposto, ovvero sottolineare il disordine del tempo presente: ad esempio creando “capitoli” diseguali per durata – alcuni brevissimi, altri interminabili – senza alcuna regolarità. In questo senso il paragone letterario più vicino alla “capitolazione” del cinema attuale è quello con la suddivisione in “momenti” di un romanzo rivoluzionario come L’isola di Arturo. Di più: la scansione cinematografica in “capitoli” sembra legittimare e celebrare la precarietà dell’esistente accogliendone la mancanza di programmaticità, forse ispirandosi proprio a quella visione letteraria che caratterizza anche la scrittura di Elena Ferrante, secondo cui la scompaginazione dei “margini” è più aderente al vero della rigida compostezza del “dettato”.

Questa tendenza appare evidente anche in Parigi, 13Arr., dove la storia è punteggiata da “cartelli” che ne suddividono i momenti narrativi, così come in due racconti cinematografici come Drive My Car, dal racconto di Haruki Murakami Uomini senza donne (!), che inizia con un prologo lunghissimo e produce un “titolo” quaranta minuti dopo l’inizio del film (stratagemma già usato anche da Adam McKay in Vice), o come Licorice Pizza, che procede per episodi speculari e contrari fortemente letterari nella loro impostazione drammaturgica, senza tuttavia preoccuparsi di costruire intorno a loro una trama canonica e formale, e strutturando invece le vicende dei suoi protagonisti come una corsa trafelata e irruenta. Così come correva Julie, la protagonista di La persona peggiore del mondo, verso di noi, “sbattendoci in faccia” la liquidità del suo vivere a dispetto della ripartizione in capitoli impressa sulla storia.

Questa scansione capitolare, resa poi del tutto irrilevante dalla vicenda narrata, sembra un modo di aderire ad una esistenza in cui fare programmi è “un modo di far ridere il Creatore”, e ignorarli è un modo di dare spazio ad una nuova libertà di movimento e di azione. Per contro il capitano Jakob Störr, che in Storia di mia moglie si ostina ad imprimere un senso e una direzione precisa alla sua vita, fallisce miseramente, così come i tentativi programmatici di Lucien Chardon in Illusioni perdute di uscire dalla provincia e diventare un autore di successo si traducono in un fiasco esistenziale. E in Tromperie – Inganno Philip, l’alter ego cinematografico di Roth, annota certosinamente le sue ossessioni in un notes che Arnaud Desplechin procede a scompaginare, sparpagliando ovunque le pagine del romanzo Deception alla base del suo adattamento cinematografico, e riassemblandole sulla forza non dell’immaginazione dello scrittore protagonista, ma della capacità di raccontarsi delle donne che ha amato.

Julie in La persona peggiore del mondo, Lisa e Giorgi nella surreale vicenda di What Do We See When We Look at the Sky?, i giovani protagonisti di Parigi, 13Arr., Alana e Gary in Licorice Pizza e persino il regista (!) teatrale Yusuke in Drive My Car accettano invece l’impermanenza e abbracciano l’inevitabilità di un orizzonte incerto. Non solo si fanno concavi con ciò che offre loro il presente, ma guardano con una misura di speranza ad un futuro che sanno non essere altro che una continua scommessa fatta di ripetizioni: incontri amorosi (La persona peggiore del mondo e Parigi, 13Arr.), accadimenti imprevisti e incontrollabili (What Do We See When We Look at the Sky?), lutti da incorporare nel proprio vissuto (Drive My Car), imprese impossibili in cui buttarsi senza la paura di compromettere il proprio piano esistenziale (Licorice Pizza).

Non è dunque la rassegnazione a scombussolare i capitoli dell’esistenza presente nel cinema attuale, ma una nuova capacità di cogliere l’ironia nella preordinazione, e di accettare la fluidità senza appigli di un’esistenza random che può procedere vertiginosamente all’indietro come un camion in retromarcia (o come i titoli di testa di America Latina dei fratelli D’Innocenzo, improntati a quel “cambioverso” che caratterizza, e tormenta, l’identità maschile contemporanea), di correre reclamando per sé la facoltà di non fermarsi, di procedere senza meta, di sbagliare strada, di perdere conoscenza, di cadere, rialzarsi e ricominciare, e infine di farsi beffe dei “capitoli” della propria storia: i personaggi, come i film che abitano, in totale libertà narrativa, ribellandosi alle ambizioni di ordine e organizzazione del regista, rivendicano il proprio diritto ad un’anarchia vitale e creativa. E da questo contrasto (apparente) fra il regista creatore e le sue creature indisciplinate nasce l’originalità di un cinema adatto a riflettere la vita nella sua imprevedibilità presente. 


di Paola Casella
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