Il capitale umano
Del film di Paolo Virzì si è parlato fin troppo al di fuori del mondo del cinema in cui si valuta la riuscita, la piacevolezza, gli errori di una nuova opera filmica. È successo varie volte nella storia anche recente, ma in questa occasione forse si è un po’ esagerato.
Per questa ragione, chiudiamo questo capitolo che non ci interessa per parlare di quanto ha realizzato l’autore livornese nel suo primo lavoro ambientato nel Nord Italia con uno stile narrativo differente, adatto per trattare temi di forte impatto emotivo e ben lontano dallo spirito da toscanaccio irriverente che era parte importante del successo da lui fino ad ora ottenuto.
Liberamente tratta dal omonimo romanzo di Stephen Amidon ambientato in originale nel Connecticut, è una storia contemporanea che in sé racchiude il racconto di certa provincia non solo italiana con il cancro del successo, del tentativo di raggiungere a tutti i costi uno status non consono alle proprie reali possibilità.
La forma narrativa è quella del tipico thriller, ricco di colpi di scena che portano a sottofinali e finali sempre interessanti, ma la struttura portante è quella del dramma borghese e sociale, della famiglia in continua evoluzione verso un futuro non necessariamente felice, dei vari modi di interpretare la stessa realtà che coinvolge due nuclei familiari.
Prima costatazione è che Virzì ha saputo perfettamente affrontare questa prova, anche se in alcuni momenti sembra eccessivamente teso nel fare bene limitando la spontaneità della narrazione che appare troppo legata ad una sceneggiatura intoccabile.
Non lo si può e non lo si deve considerare un limite: per lui è un mondo nuovo e per questo lo rispetta e un poco lo teme. Per questa ragione l’improvvisazione o, quantomeno, l’inserimento di scene già previste nello script rilette in maniera differente non è mai presente.
La seconda è che lo sfondo su cui si sviluppa la storia non è convincente a tutti i livelli. Ad esempio, le riunioni degli azionisti sono raccontate più come le vede il cinema che non quali sono in realtà con i soci dello spregiudicato finanziere che apparentemente non contestano mai le scelte dell’uomo anche quando il fondo perde il novanta per cento del suo valore; il liceo privato frequentato dai ragazzi è raccontato con un taglio più americano che italiano con tanto di ex allievo che è riuscito nella vita e che fa da testimonial del successo di questa oasi dorata; il direttore di banca poco credibile che concede un prestito all’agente immobiliare pericoloso anche se garantito dall’ipoteca su di un immobile capiente ma intestato ad una minorenne.
Consideriamole licenze oppure errori, ma non permettono di essere completamente coinvolti nella vicenda che si dipana attraverso le vicende di Dino agente immobiliare separato convivente con compagna psicologa e incinta, della figlia Serena bene accetta dalla matrigna e vero ago della bilancia di tutto quanto accade nella vicenda, di una società dove la finanza tossica è accettata come modus vivendi da troppe persone anche ‘per bene’.
Il degrado più completo lo si ha nel personaggio dell’agente immobiliare, un uomo disposto a tutto pur di uscire da quel suo mondo di mediocrità e di insoddisfacente borghesia. Utilizza senza scrupoli la figlia minorenne, la offre anche fisicamente al rampollo della famiglia del top rider sperando di potere entrare nel clan di quelli che contano, di essere accettato in un fondo che promette il quaranta per cento di utili ma dove bisogna essere raccomandati per entrare nonostante si chieda una quota minima di cinquecentomila euro.
Diventa compagno di doppio a tennis del ricco ‘consuocero’, si fa prestare settecentomila euro mettendo in garanzia la casa intestata alla figlia minorenne, è onorato di essere al suo tavolo anche se forse si accorge di essere solo sopportato.
Il personaggio più triste, per la serie che anche i ricchi piangono, è quello di Carla moglie del finanziere e madre dello scapestrato ragazzo di Serena. La sua vita è inesistente, ogni suo desiderio viene soddisfatto ma, in realtà, lei non ha una propria esistenza.
Le sue giornate sono malamente riempite da incontri con signore del suo lignaggio, con acquisti inutili fatti in negozi delle grandi firme nel tentativo di dare un senso a un tempo di cui lei non riesce mai ad essere protagonista.
Scopre che l’unico teatro della sua città è chiuso da anni, convince il marito in crisi finanziaria per investimenti sbagliati a comperarlo, così lui crea una fondazione per avere detrazioni dalle tasse e lei seleziona un poco funzionale comitato scientifico in cui c’è anche un professore che ha sempre sognato di fare teatro vero, che diviene direttore artistico e per breve tempo amante della donna.
Quando un cameriere in bicicletta viene investito dal SUV del figlio, lei cerca di recuperare una propria identità e di aiutarlo, ma viene dileggiata da tutti.
Serena è una ragazza che vuole bene al padre, che ha accettato la matrigna, che non da problemi negli studi. Ha una storia d’amore col ricco rampollo del finanziere ma non riesce a gestirla come vorrebbe poiché è costretta dal padre, indirettamente da Carla, direttamente dai casi della vita a fare scelte non sue che le provocano disagio e dolore.
Più marginale ma non meno importante la figura di Roberta, compagna di Dino che perdona e accetta con tutte le sue debolezze. È psicologa in struttura pubblica, si occupa di emarginati, è come un pesce fuor d’acqua in questo mondo fatuo dove tutti vogliono apparire per quello che non sono.
Potremmo definirla di sinistra, sicuramente è l’unica che ha un contatto vero col territorio fatto non unicamente da salotti di miliardari. La prossima maternità la addolcisce, ma è lei l’unica che sa stare, con vigore e determinazione, vicino nel momento del bisogno a Serena.
Gradiente che accomuna tutti i personaggi, compresi avvocati, amiche, amici, commercianti che hanno ruoli di contorno ma essenziali nella storia, è la menzogna: ognuno appare come vorrebbe essere, sa comportarsi come un camaleonte che cambia il modo di raffrontarsi con gli altri a seconda che siano in auge o in crisi, è inaffidabile verso l’esterno ma anche con se stessi.
La Brianza raccontata da Virzì vuole essere uno spaccato di una società italiana dove conta molto di più apparire che essere, dove in tempo di crisi esistono persone che vivono a livelli di esasperata ricchezza ottenuta sia onestamente che seguendo l’onda anomala del malcostume. Non mancano alcuni qualunquismi, come del resto in film ambientati in altre zone d’Italia viste più attraverso i luoghi comuni che non vagliato attraverso un attento studio della realtà: Napoli con l’arte dell’arrangiarsi, Roma caciarona e in mano alla politica, Torino seriosa, Milano fulcro dell’economia italiana. Un peccato veniale fatto più per comodità narrativa che non per volontà di raccontare la realtà di una zona economica italiana.
Il messaggio del film lo si ha nella frase detta da Carla “avete scommesso sulla rovina del Paese e avete vinto”, che descrive con triste credibilità il lavoro di una finanza che non investe in realtà operative ma che punta le aspettative di ricchezza nell’incapacità dell’Azienda Italia di risollevarsi dalla crisi.
Valeria Bruni Tedeschi, dopo la deludente prova fornita in Un castello in Italia sia come attrice che come regista, qui dimostra la sua bravura tratteggiando con finezza un personaggio difficile, una donna che accetta di essere ricca senza chiedersi il perché, che ama il marito ma non riesce a capire questo “mors tua, vita mea” che è al centro della sua filosofia di vita. Cerca di riprendersi la propria esistenza col Politeama, ma il marito la depreda anche di questa sua unica possibilità di esistere.
Fabrizio Bentivoglio caratterizza, probabilmente per seguire le direttive della regia, fin troppo questo viscido personaggio in grado di essere più malvagio dei malvagi che affamano tanti ingenui come lui: è l’unico che parla con un accento smaccatamente lombardo che rischia di togliere un po’ di interesse alla sua pure ottima prova.
Valeria Golino con poche battute crea un personaggio che si ricorda, che ha importanza nella vita dei principali personaggi della vicenda.
Fabrizio Gifuni, nonostante il carico mediale del suo personaggio che crea e distrugge vite e felicità, è lasciato volutamente in disparte: esiste ma si conosce più nella sua epidemicità che non nel suo intimo.
Comprimari di lusso Luigi Lo Cascio professore frustrato che spera di realizzare in un sol colpo tutti i suoi sogni, Bebo Storti inquirente asservito ai potenti, Gigio Alberti direttore di banca dalle decisioni dettate più dall’amicizia che non dalla logica.
Ultima ma non meno importante Matilde Gioli, nel film Serena solo di nome. Ventiquatrenne milanese, proveniente da ginnastica ritmica e nuoto sincronizzato a livello agonistico, laureata in Filosofia continua ad occuparsi di neuroscienze nonostante sia stata scoperta dal fotografo di moda Mario Zanaria che da Paolo Virzì. Presentatasi per fare la comparsa, è stata scelta dal regista toscano che ne ha saputo poi trarre un’attrice sensibile e vigorosa. Nella costruzione del personaggio c’è molto di Virzì che la ha modellata imponendo il suo modo di intendere Serena come ragazza dolce, decisa, determinata e determinante che alla fine trova anche la felicità.
Il titolo del film, peraltro spiegato alla fine in maniera chiara: è il termine con cui si definisce l’insieme di conoscenze, competenze, abilità, emozioni, acquisite durante la vita da un individuo e finalizzate al raggiungimento di obiettivi sociali ed economici, singoli o collettivi. Le sue aspettative di vita, i rapporti familiari, la cultura, la capacità economica sono gli elementi che danno un freddo valore alla vita di ciascuno di noi: per il cameriere ucciso dall’auto poco più di 200.000 euro.
TRAMA
La vicenda comincia una notte, sulla provinciale che porta ad una città brianzola, alla vigilia di Natale, con un ciclista investito da un Suv. E’ un cameriere che lavora per una società di catering e che ha appena finito il suo lavoro. Che cosa succede con esattezza è difficile saperlo. La macchina è del ricco rampollo di una benestante famiglia della zona ma lui non guidava perché completamente ubriaco e, forse, drogato. Questo fatto mette in discussione ed in crisi due famiglie che avevano iniziato a frequentarsi sei mesi prima: quella del padre del giovane Giovanni Bernaschi, finanziere senza scrupoli che si arricchisce speculando sull’incapacità della ripresa economica italiana, e quella di Dino Ossola, modesto titolare di agenzia immobiliare ora sull’orlo del fallimento la cui figlia ha accompagnato a casa il ragazzo. Su questo sfondo la vita infarcita di bugie vissuta da persone che fingono di essere quelle che non sono per essere stimati o quantomeno accettati dagli altri.
di Redazione