I sogni segreti di Walter Mitty

Per la sua quinta prova da regista, il quarantottenne e popolarissimo attore comico Ben Stiller (impossibile non ricordarlo in Tutti pazzi per Mery o nei franchising della saga dei Fotter o nel dittico di Una notte al museo, giusto per citare qualche titolo di una lunga e fortunata carriera) ha deciso di andare a scomodare un musical dei tardi anni ’40 dietro al quale c’era a sua volta un’insolita fonte letteraria piuttosto inconsueta per un’opera canterina.

Alle origini di tutto ci sono infatti le due scarne paginette che James Thurber – celebre illustratore e umorista – pubblicò nel 1939 sul settimanale “The New Yorker”. Si trattava del racconto intitolato The Secret Life of Walter Mitty al centro del quale c’era un mite uomo qualunque, il Walter Mitty eponimo, che mentre aspettava la moglie dal parrucchiere si immaginava nel giro di poche righe di diventare protagonista di una serie di avventure mirabolanti che lo vedevano protagonista di duelli aerei in guerra, nei panni di un chirurgo impegnato in un difficile intervento in sala operatoria, ma anche in quelli di un killer in missione e in quelli scomodissimi del condannato a morte di fronte al plotone d’esecuzione.

Pur nella sua semplicità, il racconto divenne subito popolare al punto da creare nell’immaginario collettivo un modo di dire che resiste ancora oggi: quando negli USA si dà a qualcuno del “Walter Mitty” o si dice che uno “fa il Walter Mitty”, si vuole indicare un mezzo sfigato così inadeguato di fronte alla realtà che lo circonda da doversi inventare voli pindarici nei regni della fantasia per poter affermare la propria personalità.

Da quelle 12.000 battute scarse racchiuse in quindici paragrafi poi apparsi su “The New Yorker” nel 1947 il regista Norman Z. McLeod tirò fuori la commedia musicale Sogni proibiti, che in originale si chiamava invece The Secret Life of Walter Mitty e vedeva il comico Danny Kaye nei panni del sognatore Walter Mitty. Rispetto al racconto cui si ispirava, proprio per la mancanza effettiva di sostanza narrativa cui fare riferimento il personaggio venne arricchito di nuove caratteristiche e di tutta una vita privata e immaginaria che nella breve prosa non poteva materialmente aver avuto spazio.

In quel fortunato musical, che in Italia impose la figura di Danny Kaye e che rimase comunque il suo più grande successo dalle nostre parti, Walter Mitty era diventato un giovane correttore di bozze di racconti avventurosi, ossessionato da una madre autoritaria e assillante e da un principale insopportabile e scorbutico, ma sempre pronto però a lasciarsi trascinare dalla fantasia in viaggi mentali che lo ripagavano del grigiore della vita.

Viaggi che era normale lo visitassero visto che era fidanzato con ragazza viziata e piuttosto infantile, preoccupata principalmente del suo cagnolino e con la madre noiosa sempre al seguito. Inevitabile quindi che il tipo si perdesse frequentemente in sogni ad occhi aperti in cui si vedeva a seconda dei casi comandante di una nave, luminare della chirurgia, provetto capitano dell’aviazione americana, sfrontato giocatore d’azzardo, imperturbabile uomo della Frontiera americana così come brillante stilista di talento, finendo in ognuna delle sue peregrinazioni a salvare la vita a una ragazza bellissima sempre in pericolo o in mano a delinquenti senza scrupoli.

Quando un bel giorno gli capitava di incontrare una ragazza che era assolutamente identica a quella salvata nei sogni la quale lo coinvolgeva veramente in un’avventura degna di tutte quelle immaginate, nessuno ovviamente gli credeva, fino a quando l’effettivo salvataggio avvenuto nella realtà lo portava ad avere una nuova dimensione sociale all’interno del gruppo che tanto lo aveva sbeffeggiato per la sua esistenza tutta testa e niente fatti.

A dir la verità, prima di questo anomalo remake diretto da Ben Stiller, il cinema si era già preoccupato di saccheggiare sia il racconto di Thurber che la trasposizione cinematografica interpretata da Danny Kay. Anche se non indirettamente citata, è difficile infatti non pensare che Sogni mostruosamente proibiti diretto nel 1982 da Neri Parenti e interpretato da Paolo Villaggio in salsa evidentemente fantozziana fosse un’opera autonoma che non avesse strizzato più di un occhio ai due precedenti pur nella sua greve tonalità di parodia “bassa” per palati poco fini.

Il rifacimento di Ben Stiller, anche se regista e attore si è sforzato in più di un’occasione a insistere sul fatto che si tratta di un antiremake, è legato a filo doppio al musical di McLeod del ’47 ma anche alla sua striminzita fonte letteraria. E a dimostrarlo non è soltanto il plot del film ma anche il fatto che a produrre questo costoso giocattolone con tanti effetti digitali non certo a buon mercato (si è parlato di budget intorno ai 90 milioni di dollari) siano stati il John Goldwyn e il Samuel Goldwyn Jr. rispettivamente nipote e figlio di quel Samuel Goldwyn che decise di patrocinare l’insolito musical con Danny Kaye e altre star del calibro di Boris Karloff e Virginia Mayo.

Ma la storia parafilmica che ha preceduto l’arrivo nelle sale del film (distribuito in Italia una settimana prima che negli USA) è fatta di altre puntate che è bene riassumere almeno per sommi capi per far capire quanto Hollywood avesse fiutato la possibilità di sfruttare alla grande con le nuove frontiere del digitale una vicenda tutta costruita sui viaggi mentali di un uomo che non ha mai lasciato fisicamente la propria città. L’idea di fare una sorta di remake del musical del ’47 se la sono infatti palleggiata non poche  major di grande profilo a partire dalla Disney per arrivare fino alla Fox, con grossi nomi di registi e attori coinvolti nel gossip. Al punto che nel 2003 si parlò addirittura di Steven Spielberg in cabina di regia e Jim Carrey nei panni di un quanto mai mercuriale Walter Mitty. Non stupisce quindi leggere che Ben Stiller sia approdato a dirigere la pellicola per puro caso, essendosi autoproposto ai due Goldwin dopo essere stato scelto come attore perfetto per interpretare il sognatore sfigato che un giorno viene risarcito dalla Vita dopo esserne stato sbeffeggiato troppo a lungo.

Il Walter Mitty che lo sceneggiatore Steve Conrad (già autore di The Weather man – L’uomo delle previsioni e qui produttore esecutivo) gli ha cucito addosso è oggi diventato il responsabile del gigantesco magazzino dei negativi fotografici della rivista “Life”. Grigio e patetico nella sua macchietta da Charlot imbranato, Mitty è un’anonima ruota del mastodontico ingranaggio della più importante rivista fotografica del mondo. Nessuno si accorge di lui mentre lui, come tutti i timidi, gli altri li nota eccome (sopratutto una bella collega con la quale non ha il coraggio di “uscire dall’armadio” per dichiararle il proprio amore) e forse li invidia anche per il fatto che siano pieni di vita mentre la sua esistenza è una routine noiosa che, proprio per questo, Mitty cerca di riempire con continui viaggi mentali che compie ogni qual volta si incanta bloccandosi come se la sua mente lo abbandonasse davvero.

Quando facciamo la sua conoscenza, la rivista per la quale Mitty è responsabile del magazzino dei negativi sta per chiudere i battenti (come in effetti accadde nel 2007) per quanto concerne la sua edizione cartacea, passando integralmente a quella virtuale online. L’intera redazione è in fibrillazione non solo per gli inevitabili licenziamenti in vista (una potatura di rami secchi di cui sia Mitty che la sua bella collega saranno due delle tante vittime) perché occorre trovare una foto che possa segnare in maniera epocale quella che di fatto è la fine di un’epoca.

La foto ci sarebbe anche: a mandarla a Mitty in persona è stato il più grande fotografo del momento (Sean O’Connell interpretato da Sean Penn che lascia l’impronta nel film pur avendo a disposizione soltanto cinque scarni minuti di pellicola) definendola perfetta per l’occasione. Ma il negativo sembra sparito. E allora sarà proprio compito dell’ineffabile Walter Mitty, il solo che non sia di fatto mai uscito dalla propria città, a lanciarsi in un’avventura – questa volta quanto mai realistica anche se nata dall’ennesima allucinazione a occhi aperti – alla caccia del fotogramma che tutti vogliono ma che nessuno sa dove sia.

Aldilà di quelli che possono essere i tributi più o meno diretti tanto al musical del 1947 quando al racconto originale di James Thurber, Stiller ha forse ragione nel voler insistere con particolare tenacia nel negare che il suo sia un semplice rifacimento di qualcosa che è già stato fatto in passato e che viene rivisitato proprio perché aveva dimostrato di poter funzionare col pubblico. Le ragioni per cui sarebbe improprio parlare di remake sono in effetti più di una.

Tanto per cominciare il suo Walter Mitty ha in comune coi due predecessori (se si vuol evitare di chiamare in causa il personaggio di Paolo Villaggio in Sogni mostruosamente proibiti) solo la tendenza quasi patologica a rifugiarsi nei sogni a occhi aperti come medicina contro la piatta mediocrità della vita che gli è toccata in sorte. Per il resto le tensioni che alimentano il film diretto da Ben Stiller sono lontanissime dal modello letterario e dal musical con Denny Kaye e sfruttano il tema della vita immaginaria del protagonista per imbastire un discorso decisamente più complesso che Stiller non ha vergogna di proporre pur rendendosi perfettamente conto di dover asservire il tema centrale del film a tali urgenze solo apparentemente “laterali” rispetto al nucleo centrale della vicenda.

Mettendo in scena la storia di un uomo che preferisce rifugiarsi nella realtà virtuale della fantasia piuttosto che accettare le sfide della Vita autentica, Stiller fa riferimento a un altro tipo di rapporto tra realtà e finzione: ovvero il nostro essere ormai in bilico permanente tra la virtualità che l’informatica e i social network hanno imposto a tutti volenti e nolenti e la nostalgia di un passato nel quale i rapporti erano reali e tangibili e il vissuto diveniva tale solo quando era davvero il prodotto di accadimenti occorsi nell’autenticità, mentre era rubricato come fantasia allo stato pure se avveniva al di fuori di quel contesto.

Un tema questo che ha un suo naturale doppio (o addirittura triplo, a voler essere precisi) nella vicenda della chiusura dell’edizione cartacea di “Life” che il regista e attore ha scelto come cornice esterna in cui inserire la storia del suo Walter Mitty: braccata dalla modernità che incalza, la rivista materialmente sfogliabile dal lettore cede il passo di fronte alla sua scimmiottatura virtuale nella quale tutto può essere senza mai dover necessariamente essere. E, come se questo insistere sullo stesso tema non dovesse bastare, si aggiunge anche l’ulteriore subplot della caccia al negativo da cui dev’essere sviluppata la mitica foto che dovrà andare a fare da suggello finale all’ultima uscita in edicola della rivista cartacea. Nell’epoca della digitalizzazione di massa dell’immagine, il fatto che tutta la seconda parte del film ruoti intorno alla quest alla ricerca di un pezzo di passato prossimo della tecnologia fotografica come il negativo la dice lunga sulla pregnanza che il tema ha all’interno di tutta la pellicola.

Se questi sono di certo gli elementi più riusciti del film, va detto che la sceneggiatura mostra la corda quando perde di vista la propria coerenza dopo non più di quaranta minuti dall’inizio. Deciso a staccarsi dai modelli di partenza ma anche ad assecondare nella propria rivisitazione elementi a essi del tutto estranei, lo sceneggiatore Steve Conrad non si è preoccupato troppo di convertire il suo Walter Mitty da sognatore di imprese eroiche in vero protagonista della loro versione reale.

Ed è così che, quando il suo personaggio inizia a dare la caccia al negativo scomparso, lo script lo mette davvero al centro di una serie di peripezie “reali” (volo acrobatico su un elicottero dalla Groenlandia all’Islanda, lotta nelle acque gelide di quella parte di oceano con uno squalo di dimensioni omeriche, chilometri fatti sullo skateboard, fuga dalle ceneri del vulcano islandese dal nome impronunciabile che eruttò davvero tre anni or sono paralizzando il traffico aereo mondiale e partita di calcio in stile Gabriele Salvatores con mandriani dell’Himalaya e via di questo passo), trasformando la sua macchietta di osservatore passivo in un super eroe per caso che le imprese da cartoon le compie davvero. Il che è di fatto inaccettabile visto il presupposto narrativo della marionetta negata alla vita su cui il personaggio del protagonista era costruito fin dall’inizio delle ostilità.

Se quindi il film di Stiller non è forse riuscitissimo là dove scommette troppo sugli effetti speciali che convertono il suo eroe eponimo nel protagonista di avventure mirabolanti (ci sono tante cartoline di posti incantevoli in Groenlandia e Islanda che sono poco più di zeppe esteriori che servono come puri pretesti), lo è invece del tutto nel suo voler spingere lo spettatore ad andare aldilà della mera superficie del racconto, scoprendo gli strati densi di una riflessione sul nostro rapporto con l’immagine vista in tutti i suoi sensi più lati (da come ci vedono gli altri fino alla morte del cinema inteso come immagine immortalata su un supporto – la pellicola impressionata – che dal 1 gennaio 2014 non sarà più lecito usare negli USA).

Trama

Inguaribile sognatore a occhi aperti, il mite e solitario Walter Mitty è responsabile della sezione dei negativi della prestigiosa rivista “Life”. Quando la direzione decide di abbandonare la versione cartacea per passare a quella online, Mitty viene messo sotto pressione perché è compito suo rintracciare il negativo della foto (scomparso a seguito di una serie di equivoci) che dovrà comparire sulla copertina. Ma la ricerca non sarà affatto facile e il piccolo sognatore si vedrà costretto a vivere una vera avventura in carne e ossa dopo averne sognate tantissime soltanto nella sua mente.


di Redazione
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