I miei giorni più belli

Un film sulla memoria e una professione di fede in un cinema che non c’è più. Lo schermo ci ha offerto molti esempi di questo incontro, e quello che ci propone Arnaud Desplechin è tra i più convinti, se non convincenti. Il regista coniuga sapientemente intreccio e scelte estetiche, facendo un’opera straordinariamente compatta. Il passato cinematografico che affascina il regista è quello della Nouvelle Vague, soprattutto nella versione Truffaut, la più seducente. Desplechin lo fa rivivere non come prodotto accademico, ma come strumento per narrare la sua storia. In prestito da Truffaut, il regista prende anche l’idea di raccontare momenti di vita di un personaggio già presente nella sua filmografia, una specie di nuovo Antoine Doinel. E’ infatti  la terza volta che il personaggio di Paul Dédalus (cognome di evidente derivazione joyciana) appare nell’opera di Desplechin: è il personaggio principale di Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) del 1996, dove è già interpretato da Mathieu Amalric, poi appare da adolescente in Racconto di Natale, film del 2008 dove è affidato a Emile Berling, infine domina questo I miei giorni più belli, interpretato dal bambino Antoine Bui, dal giovane Quentin Dolmaire e di nuovo dal maturo Amalric.

Nel cinema di Desplechin i protagonisti sono sempre i sentimenti, raccontati con un misto di tenerezza e distacco, in un vortice di emozioni che rivela personaggi tormentati e insicuri. La traiettoria biografica non è una camicia di forza. Il regista afferma il primato della soggettività e dell’introspezione. Anche perché, a differenza della storia di Antoine Doinel, raccontata in parallelo con la crescita di Jean-Pierre Léaud, quella di Paul Dédalus parte dalla maturità e si concede una sorta di prequel. Nel primo film compare la protagonista di questo, Esther, i familiari e la banda dei cugini, ma Paul è docente di filosofa, qui invece fa l’antropologo. Stessa è la scenografia offerta dalla città di Roubaix, con le strade di mattoni arancione e il liceo Baudelaire, i ragazzi che si scambiano le ragazze, l’ombra della cultura ebraica. Il film segue la traiettoria non proprio lineare di un giovane che diventa uomo. Ce la racconta lo stesso protagonista in occasione del suo ritorno in Francia dopo molti anni che lo induce a ripensare momenti del suo passato. Tre come dice il titolo originale Trois souvenirs de ma jeunesse, tre come scandiscono le didascalie che accompagnano il film: Infanzia, Russia, Esther. Tre capitoli che crescono in importanza e durata.

Si può dire che la prima e la seconda parte sono dei lampi di passato che danno profondità e spessore alla storia di Paul, che è soprattutto la storia della sua passione per Esther. Lampi che illuminano il presente come  il ricordo del passaporto regalato al coetaneo ebreo che vuole lasciare l’Urss e che crea un suo doppio perfetto: stesso nome, stessa città e data di nascita, ma che semina tracce  in Israele e in Australia, costringendo Paul, fermato dai servizi segreti per questa strana omonimia, a interrogarsi su se stesso e sul suo doppio: un’identità parallela che lo costringe a sondare la sua. Complicato? Forse sì, ma è la vita, dice Desplechin, che è complicata. Tutta incontri e scontri, scatti e sobbalzi. Con un Epilogo, quasi una quarta parte del film, in cui l’ormai maturo Paul Dédalus vibra sempre di collera giovanile contro i falsi amici che hanno rovinato la sua storia d’amore.

Desplechin rivela una straordinaria capacità di evocare la gioventù, non cronachistico-documentaristica, ma reinventata drammaturgicamente: le asprezze della vita familiare con il ricordo commosso della zia e della governante, l’avventura del viaggio scolastico in Urss con l’aiuto clandestino ad alcuni ebrei di Minsk, e infine il primo amore, il trovarsi, il lasciarsi e il ritrovarsi di Paul e Esther in un rapporto che segnerà le loro vite. Tutti e due si desiderano, fuggono, si ritrovano, si separano. Sempre innamorati ma infedeli. Un labirinto con innumerevoli svolte, ritorni, integrazioni, avanzamenti, incroci, successi, fallimenti, rimpianti. La macchina da presa si adegua. Gira e danza intorno a Paul, si concede civetterie da cinema muto, voci fuori campo alla maniera di Jules e Jim, letture di lettere da parte degli attori, con lo sguardo rivolto allo spettatore. L’andatura corre e rallenta, si blocca e riparte. E’ il gorgo della gioventù, anzi della stessa vita.

Trama

Un antropologo quarantenne, Paul Dédalus, torna in Francia dopo molti anni d’assenza e ricorda momenti della propria gioventù: la famiglia e le crisi di follia di sua madre a Roubaix, una gita scolastica in Urss, nel corso della quale regala il passaporto a un coetaneo ebreo che vuole fuggire, e la storia d’amore con una liceale, Esther. Una passione mai spenta.


di Giorgio Rinaldi
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