I delinquenti

La recensione di I delinquenti, di Rodrigo Moreno, a cura di Guido Reverdito.

Nella Buenos Aires dei giorni nostri, Morán vive con fastidio la sua routine di bancario senza prospettive né futuro in cui sperare. Per uscirne, ordisce un piano criminale in versione faidate nel quale coinvolge il collega Román: dopo aver sottratto dalla banca l’esatto importo che corrisponde agli stipendi di entrambi fino alla pensione, lo convince a custodire il malloppo. Nel frattempo si costituirà, farà solo tre anni di galera e poi, una volta tornato in libertà, lui e il sodale potranno vivere un’esistenza felice senza più dover timbrare il cartellino.

E questa è solo la premessa iniziale che in meno di venti minuti diventa la scintilla pronta a scatenare il resto delle tre ore di pellicola in cui lo spettatore viene chiamato a fare i conti con le conseguenze del piano criminoso messo in atto dai due colleghi, destinati e seguire percorsi paralleli sfasati nel tempo e rivissuti in lunghi flashback (col carcerato che da dietro le sbarre pilota il collega facendogli ripercorrere tutti i passi fatti da lui dopo aver sottratto il denaro, per arrivare al finale liberatorio dopo che le due esistenze speculari si sovrappongono al punto da essere una la replica a posteriori dell’altra).

Dopo un decennio di relativo silenzio, con I delinquenti il cinquantunenne argentino Rodrigo Moreno cerca la definitiva consacrazione ad “autore”, dopo che questo suo fluviale inno alle seconde opportunità e a modelli alternativi di vita rispetto a quelli imposti dalla dittatura capitalistica era stato ignorato dalla giuria di Cannes lo scorso anno per poi essere invece acclamato dal pubblico nell’anteprima italiana fuori competizione alla 41ma edizione del Torino Film Festival.

I protagonisti principali portano tutti il medesimo nome, solo anagrammato in forme differenti in un gioco intenzionale di rimescolamento di carte narrative: a partire dal duo Morán + Román, per arrivare al terzetto anomalo di cui entrambi diventano parte anche se in tempi diversi della narrazione (con la Morna di cui uno e l’altro si innamorano e l’amica Norma a sua volta legata al compagno Ramón). Un gioco di contrapposizioni binarie riproposto ugualmente in tutti gli altri assi portanti dello script (opera dello stesso Moreno, il quale figura anche tra i montatori, a conferma della volontà di un controllo totale sul materiale): e cioè città/campagna, alienazione urbana/libertà rurale, lavoro/evasione, detenzione/avventura, sfruttamento capitalistico/affermazione individuale, e via dicendo.

Una struttura questa che da una parte si adatta perfettamente ai percorsi paralleli dei due protagonisti (uno che dalla cella pilota l’altro), e dall’altra rende più scorrevoli le tre ore e dieci di pellicola la cui dilatazione temporale nelle lunghe sequenze dedicate alla pura illustrazione di magnifici paesaggi della pampa contrapposti alle angustie metropolitane sembra solo all’apparenza fine a se stessa, trovando invece la sua ragione di essere nell’insistenza che l’intera sceneggiatura ha sul principio del ritorno alla natura, della fuga dalle costrizioni imposte del sistema e dell’affermazione di una vita possibile all’insegna della sostenibilità interiore ed ecologica. Una sceneggiatura che va detto a titolo di acribia è originale solo fino in parte perché il suo spunto centrale era già alla base di un classico del cinema argentino del 1949: ovvero Apenas un delincuente di Hugo Fregonese: nel quale un modesto impiegato di banca metteva a punto una rapina all’interno dell’istituto bancario in cui lavorava, con il triplice obiettivo di nascondere la ricca refurtiva, andare a costituirsi alle autorità e infine darsi alla bella vita una volta scontata la pena. Il protagonista di quel classico, interpretato da un famoso divo di fotoromanzi e telenovelas oltre che del grande schermo si chiamava José Morán… Solo un caso?


di Guido Reverdito
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