I Am Not Your Negro
Film poetico e politico a un tempo, I Am Not Your Negro del regista haitiano Raoul Peck ci aiuta (come di recente aveva fatto anche Austerlitz di Sergei Loznitsa) a capire il mondo contemporaneo grazie al linguaggio del cinema e alla sua particolare capacità di custodire e interpretare la memoria e l’immaginario collettivi. Candidato all’ Oscar per il Miglior Documentario 2017, il film ha inaugurato la 27ma edizione del Festival del Cinema africano, d’Asia e d’America Latina di Milano (che ha ospitato anche un incontro con l’autore, a colloquio con Annamaria Gallone e Giuseppe Gariazzo), è distribuito in Italia da Wanted con Feltrinelli Real Cinema, ha ottenuto il patrocino di Amnesty International – Sezione Italiana ed è stato segnalato come “Film della Critica” dal Sindacato Critici Cinematografici Italiani – SNCCI.
Forse solo un regista (ma anche fotografo e giornalista) come Peck, che più di altri ha attraversato le culture (nato ad Haiti, cresciuto nel Congo coloniale belga, si è poi formato tra Francia, Germania – dove ha studiato cinema – e USA) e ha saputo fare i conti con la Storia e con le proprie molteplici identità – lo dimostrano i suoi film sin qui di maggior successo come L’homme sur le quais (1993), Lumumba (2000) Moloch Tropical (2009) – poteva concepire e far proprio la complessa partitura di questo film: un viaggio dentro l’opera di James Baldwin, artista raffinato e multiforme, scrittore, poeta, drammaturgo, saggista, polemista, morto nel 1987 in Francia, dove aveva vissuto da giovane (prima di tornare nella sua terra, a “pagare i propri tributi”), per molto tempo ambasciatore nel mondo della cultura “black”.
Anche se il film (cui qualche critico affibbia ancora etichette come quella di “film di montaggio”) attinge a moltissimi testi e a numerosi interventi pubblici di Baldwin, il fulcro della sua costruzione ruota attorno a “Remember this house”, un progetto incompiuto (ne restano appena una trentina di pagine) attraverso cui Baldwin intendeva tracciare la storia della nazione americana come la storia dei suoi irrisolti conflitti razziali. Di questa storia egli vedeva poi i momenti-chiave nella parabola esistenziale e nell’assassinio di tre grandi – e sia pur assai diversi tra loro – leader del movimento anti-razzista e per i diritti civili: Medgar Evers, Malcolm X, Marin Luther King Jr. Tre leader che Baldwin aveva conosciuto bene, tutti e tre uccisi sulla soglia dei loro quarant’anni, tra il giugno ’63 e l’aprile ’68, in quel contesto storico e sociale che in meno di 5 anni vide un crescendo di attentati, eccidi e massacri di matrice razzista, ad opera anche delle forze dell’ordine, e in cui era già maturato l’assassinio di JFK (un contesto assai ben esplorato da Pablo Larrain in Jackie, ancora un altro film fortemente poetico e fortemente politico del regista cileno).
Come ha detto lui stesso nell’incontro milanese, il regista ha inteso realizzare un film “definitivo” sull’opera di Baldwin (per lo spettatore è un po’ come entrare nel “cantiere” di quest’opera) e non certo sulla sua biografia di personaggio scomodo (non ultimo, per la sua dichiarata omosessualità, di cui pure la famigerata FBI di Hoover era assai curiosa…). Allo stesso modo, ha voluto colmare il vuoto di quel progetto incompiuto, ma lo ha anche aggiornato, regalandoci un film che cerca un dialogo intimo con lo spettatore e al tempo stesso attiva la sua memoria e la riflessione critica sul presente. Sta proprio qua la capacità magistrale di Peck: aver composto un meta-testo che è anche un emozionante collage e ipertesto multimediale (che lavora con i linguaggi della fotografia, del cinema, della televisione e, last but not least, della musica) e aver saputo fondere l’analisi del “negro problem” statunitense con le ragioni di fondo dei principali conflitti sociali ed economici del nostro tempo. Nel montaggio vorticoso ma senza sbavature di Alexandra Strauss e nella partitura originale di Alexei Aigui si mescolano allora di continuo le immagini di ieri e quelle di oggi, il b/n e il colore, la grana del tempo e l’alta definizione tecnologica, il blues dei campi di cotone e il jazz delle città, la violenza rivoluzionaria del rock e quella senza più utopie del rap. “La storia non è il passato, è il presente”, ci aveva ricordato, del resto, proprio James Baldwin.
E’ questa la magia che si manifesta sin dall’incipit del film, una sequenza lenta, sospesa, quasi ipnotica (altre, analoghe, punteggiano il film, scandendone i suoi capitoli), dove la camera scivola sotto uno dei tanti cinematografici ponti della subway newyorkese, e noi entriamo, con lei, in questo “diario” pubblico e privato a un tempo, cullati dalla musica e dalla voce narrante di Baldwin che è poi la voce calda e roca di Samuel L. Jackson, scelto sin da subito dal regista (anche per la capacità di “penetrare il testo” legata alla sua formazione teatrale) e ricambiato da una entusiastica adesione al progetto.
Sono tantissimi i livelli di lettura che il film (un progetto coltivato da Peck da circa dieci anni) ci propone, in una architettura complessa e studiata in ogni suo dettaglio (a differenza della libertà, anche narrativa, con cui Peck ha ultimato, quasi nello stesso periodo, un suo nuovo film “di finzione” quel Le Jeune Karl Marx presentato sempre alla Berlinale 2017). E per ciascuno di quei livelli (culturale storico, filosofico, economico, ecc.) ci sono le immagini e le parole a testimoniare la ricchezza e l’accuratezza, anche filologica, di una ricerca che, nel nome di Evers, Malcolm X, Luther King Jr. e di tanti altri, riannoda il filo delle lotte per l’eguaglianza e i diritti civili a partire dagli anni ’50 alle nuove rivolte e ai morti che hanno insanguinato anche l’America di Barack Obama e certo non hanno aiutato a fermare l’onda populista e xenofoba di Donald Trump.
Peck aveva letto Baldwin sin da giovanissimo e, come egli stesso ha dimostrato con i suoi film, ne condivide l’abilità nello svelare le contraddizioni e le ipocrisie che hanno circondato la “questione razziale” negli Stati Uniti d’America. L’ “American Dream” è sin dalle origini un sogno finto (per la popolazione di colore piuttosto un vero e proprio incubo ad occhi aperti) perché fondato sul peccato originale del massacro dei nativi indiani e sulle sabbie mobili della discriminazione e dell’ineguaglianza che negano alla radice l’idea stessa di partecipazione democratica. L’ideale romantico di “libertà o morte” è un dogma per l’uomo bianco, ma in bocca all’uomo di colore diventa sedizione criminale . Se la storia dei neri d’America, tra esilio e diaspora interna (quella raccontata e analizzata da Baldwin, ma anche, per fare solo qualche nome, da Richard Wright, o da autrici come Toni Morrison o Isabel Wilkerson nel suo recente saggio Al calore di soli lontani), è una storia propriamente americana, essa assume oggi un significato universale, che riguarda lo sfruttamento dei più indifesi, come dimostra ogni giorno la crisi umanitaria e sociale dei rifugiati.
“Il mondo non è stato mai bianco”, “il nero è una invenzione di bianchi”, “bianco è una metafora del potere”. Con l’intelligenza, la verve affabulatoria, lo stile icastico, spesso ironico, che Peck ci mostra lungo tutto il film Baldwin mostra le strutture e le dinamiche del potere razzista, in primo luogo quelle economiche, ricordandoci, ad esempio, che la ricchezza delle classi dominanti degli Stati del Sud era da sempre fondata sullo schiavismo e sul lavoro a basso, bassissimo, costo. A sostenere tali strutture, marxianamente appunto, pensano le sovrastrutture ideologiche, veicolate, tra l’altro, dal cinema e dalla pubblicità. I Am Not Your Negro – ed è solo un altro dei suoi tanti meriti – ci offre in questo senso un vasto e interessante campionario filmico, con estratti di film che datano dagli anni ’30. Ma anche di programmi televisivi e di commercial, che testimoniano come dallo sberleffo “castrante” a sfondo anche sessuale (la pubblicità dell’ “uomo-banana” Chiquita…), a partire dagli anni 60’ e poi ’70, il marketing scopra il potere d’acquisto delle classi di colore affluent, finalmente ammesse, più ancora che in virtù dei Civil Rights Acts, ai riti e ai simboli della società consumistica. Al punto da legittimare la profezia di Robert Kennedy su un futuribile presidente Usa di colore, e anche, sul punto, la tagliente ironia di James Baldwin. Lui, ultimo di nove figli di una famiglia povera, un “shoeshine boy” che non frequentò mai la Chiesa e la borghesia nera, ma non fu mai attratto nemmeno dai movimenti radicali “black”, perché, coerentemente al suo credo, non pensava che l’uomo bianco fosse di per sé il diavolo.
TRAMA
Raccontato interamente con le parole di James Baldwin, attraverso il testo del suo ultimo progetto letterario rimasto incompiuto, I AM NOT YOUR NEGRO tocca le vite e gli assassinii di Malcom X, Martin Luther King Jr. e Medgar Evers per fare chiarezza su come l’immagine dei neri in America venga oggi costruita e rafforzata.
di Sergio Di Giorgi