Holy Motors

Se Leos Carax fosse stato un poeta avrebbe scritto versi dadisti, avrebbe preso le forbici e ritagliato le parole, le avrebbe messe in un sacchetto, agitate dolcemente e tirandole fuori così, nell’ordine in cui venivano, avrebbe composto una poesia in grado di somigliarci. Proprio come Tristan Tzara avrebbe voluto.
Carax ha, invece, scelto il cinema e, con la stessa poetica visionarietà di un Dada, ha estratto immagini e suggestioni dal suo cilindro di idee, per dar forma a fantasie, concetti e simboli. Ha abbattuto la (quarta) parete, senza sfondarla ma aprendola, quasi in silenzio, per non disturbare la platea di sagome dormienti (o morenti?) di fronte ad uno schermo che qui si fa sipario aperto su un universo di variegate visioni. Ed è proprio lui, Carax stesso, a dischiuderci quel mondo di suggestioni mettendoci nelle mani di Oscar, il multiforme primo attore, che sarà uno e tanti altri, multiplo di se stesso in grado di rigenerarsi all’infinito passando attraverso la vita – ogni volta diversa – e la morte – ogni volta sconfitta.

Il protagonista è, così, il personaggio artistico per eccellenza, in mano ad un regista/autore/demiurgo che farà di lui un musicista o un vilain, un padre di famiglia o un killer, un banchiere o un mendicante…
Per dieci vite o per mille egli, pirandellianamente, sarà tanti uomini e uno solo ma, nel contempo, non potrà mai prescindere dal suo essere (prodotto) umano e quindi fallace e mendace, pronto ad indossare una maschera per celare – o svelare – una serie di volti.

Nella sua limousine-camerino, Oscar, accompagnato dalla fedele autista Céline, si reca ai suoi “appuntamenti” e uscendo, ogni volta diverso, fuori dall’abitacolo, è pronto ad incontrare le diverse esistenze. L’automobile si fa qui “mente viaggiante” del regista, scrigno di flussi emotivi, di pensieri e di ispirazioni ma anche di trucchi e di trovate. Venghino allora, signori, venghino nel magico e inquietante mondo di Carax, bello e terribile come la natura umana. L’arte è artificio, sì, ma si fa verità in molteplici fogge.

Non chiediamoci Oscar chi è, quanto chi egli “non” è. Non è tutto quello che dovrà (e potrà) ancora diventare ma, al tempo stesso, è in grado di vivere al di fuori dello schermo, continuare ad esistere al di là della pagina, durare oltre il suono di una voce. In una parola: esserci.

L’impianto visuale che il cinema offre esprime qui la qualità artistica dell’azione creativa perché, come dice lo stesso Oscar, “tutto si fa per la bellezza del gesto”. E’ da esso che parte il motore (sacro) dell’ispirazione che si declina in azioni e in parole, in una mise-en-scène dell’estro.

Carax attinge dalla settima arte e da se stesso in un gioco di citazioni, omaggi (Céline/Èdit Scob di Occhi senza volto di Franju), rimandi anche autoreferenziali come Monsieur Merde (già personaggio del film collettivo Tokyo! del 2008), l’essere immondo che vive nelle fogne, parla un linguaggio incomprensibile ma è in grado di vedere, con il suo unico occhio, la vera bellezza. Nella sua incursione in un patinato shooting fotografico (ma, guarda caso, nel Cimitero), infatti, Merde- La Bestia rapisce Eva Mendes– La Bella, la trascina nel sottosuolo e lì, tra la terra sporca ma ricoperta di petali, ne onora la beltà, coprendone le grazie come a preservarle dalla corruzione dello sguardo per poi adagiarsi accanto a lei in una posa che rimanda ad una carnale “Pietà”.

Oscar percorre le strade di una Parigi-palcoscenico, entra ed esce dai suoi ruoli, attraversa il tempo invecchiando, sfida la morte resuscitando e passa – fondamentalmente immutato – attraverso i differenti generi cinematografici come a scandire il ritmo di un atto creativo che, in quanto tale, racchiude il genio e il delirio, la vocazione e la follia. Dalla tragedia alla commedia, dal musical al thriller Carax realizza un progetto di immagine, lasciando che ogni personaggio vi imprima un segno di personale intensità e, così facendo, amplifica il valore di ogni singola prova attoriale che passa dal sinuoso e muto movimento di un corpo al canto struggente di Kylie Minogue, fino al monito oscuro di Michel Piccoli.

La straordinaria performance di Denis Lavant, attore-feticcio di Carax, contribuisce a dare un senso di strabiliante unicità a quest’opera visionaria che come un poema dadaista, appunto, scaturisce da una totale e originale libertà di azione. Se ne potrebbe parlare a lungo ma nessun senso sarebbe abbastanza compiuto nei confini della parola poiché Holy Motors va esperito solo attraverso la visione, la dilatazione dello sguardo e la rielaborazione, personalissima e privata, di ogni singolo spettatore.

Un puzzle creativo in cui l’amore per il cinema si converte in atto di coraggio, osa e rischia per (dis)turbare al di qua dello schermo e si offre, proprio come Oscar nella sua limousine, di riportarci infine a “casa”, in quell’abitare primigenio che è, forse, la famiglia delle origini, nucleo primitivo al quale dobbiamo tornare prima di definirci ancora umani. E sul finale, che non è atto conclusivo ma riflessione al termine di un atto immaginifico, Carax potrebbe perfettamente rappresentare una parafrasi nietzschiana: “La paura indossa la maschera della finzione non per eccesso di vita ma perché di vita non ce n’è abbastanza”.

Trama

Una giornata nella vita di un uomo. Oscar, a bordo di una limousine guidata dall’autista Cèline, passa, appuntamento dopo appuntamento, da una vita ad un’altra. Con perizia e professionalità recita la differenti parti, dall’assassino al mendicante, dal padre di famiglia al mostro. Passando attraverso l’amore e la morte, Oscar si trasforma di volta in volta, spinto dal motore/azione del gesto. Ma chi è davvero? In una molteplicità di risposte sembra rinnovarsi, esistenza dopo esistenza, l’urgenza della domanda. In un continuo interrogarsi che potrebbe non avere mai fine.


di Eleonora Saracino
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