Hereafter
Viene erroneamente considerato, e furbamente promosso, come un film sull’aldilà, ma in Hereafter non v’è alcuna traccia di impostazione metafisica e/o religiosa. Anzi, potremmo affermare come l’ultimo lavoro di Clint Eastwodd sia invece una riflessione laica, lucida e dolorosa sull’aldiquà. Il regista americano e il suo sceneggiatore Peter Morgan hanno astutamente giocato la carta narrativa e fantasiosa de “l’altro mondo” per raccontare invece tutt’altra storia: una vicenda basata sull’essenza stessa della vita e sulla difficile identificazione della sostanza dei rapporti umani.
I tre personaggi centrali, pur legati da un sottile filo, percorrono strade che solo in conclusione sembrano potersi incontrare. Sono le loro esperienze intime con la morte a renderli vicini, a portarli sulla dimensione “altra” del pensiero sulla natura della realtà, a spingerli a elaborare una concezione umana nell’ambito della quale ciò che conta è il peso dei rapporti interpersonali.
Il sensitivo che rifiuta di lucrare sul suo “dono” è in verità solo un individuo estremamente sensibile che più che avere delle visioni appare capace di leggere in profondità i sentimenti altrui. E’, quello del protagonista, un continuo inabissarrsi nel dolore del prossimo a cui segue sempre un desiderio potente e vitale di riemersione nel caos nevrotico del mondo. Riemersione che significa però ricerca di un sentimento verso il femminile che dia senso al suo esistere nella decadenza di una società industrializzata e cinica.
Il giovane inglese Marcus, in crisi per la morte tragica del suo fratello gemello, e la gionalista francese scampata a uno tsunami sono invece soggetti che grazie al tema della morte sviluppano, in modo diverso, un senso di appartenenza alla vita che alla fine avrà il sopravvento su tutto.
Eastwood dirige questo suo film con il tono e lo stile che ormai sono diventati un autentico marchio di fabbrica. La macchina da presa si muove sempre sicura e organizza il racconto attraverso inquadrature mai sovrabbondanti. Ogni immagine appare essenziale e funzionale allo sviluppo di una narrazione che si manifesta come flusso disteso di significati, come unione di elementi contenutistici che in conclusione convergono verso la messa a fuoco del senso dell’opera. Ciò che voleva realizzare Eastwood non era tanto un elegante fantasy sui buoni sentimenti quanto piuttosto una delicata parabola filosofica sulla fragilità della società umana e sulla questione, mai risolta, della solitudine nel mondo moderno e capitalista, un mondo che emargina chi soffre e che ha paura di chi è dotato di una sensibilità non corrotta dalle regole dell’apparire e del profitto a tutti i costi.
Hereafter è dunque un lungometraggio sulla vita (di oggi), sull’angoscia degli individui, ma anche sulla possibilità di un’esistenza basata su rapporti sinceri tra esseri umani.
Con una punta in meno di patetismo e senza certi evidenti stereotipi, tipicamente americani, sulla società europea (compresa quella italiana) probabilmente questa pellicola sarebbe stata una delle migliori prove di Eastwood, il quale, oltretutto, è riuscito nel miracolo di far recitare in modo più che soddisfacente il più rigido degli attori di Hollywood: Matt Damon.
di Maurizio G. De Bonis