Harsh Times – I gioni dell’odio
David Ayer è uno dei più interessanti sceneggiatori del cinema americano. Dopo aver esordito nella scrittura cinematografica con U-571(2000), ha poi proseguito il suo lavoro con Fast and Furious(2001) e Training Day(2001). Quest’ultimo lungometraggio, per la regia di Antoine Fuqua, fu presentato fuori concorso alla 58. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ottenendo un discreto successo, anche dal punto di vista critico. Ora è arrivato nel circuito delle sale italiane la sua opera d’esordio dietro la macchina da presa:Harsh Times – I giorni dell’odio (2005).
Si tratta di un lungometraggio di notevole impatto espressivo, impostato su una struttura linguistica potente, ben articolata, che solo parzialmente sfora in una ridondanza creativa che può irritare. D’altra parte i temi trattati da Ayer sono enormi e fatalmente hanno portato il regista-sceneggiatore ad elaborare un impianto formale fortemente comunicativo, carico al limite della sopportazione.
Gli argomenti trattati dall’autore sono praticamente identici a quelli alla base di Training Day: il sincero sentimento dell’amicizia, il confine labile tra lealtà e slealtà, il disagio della popolazione delle periferie di Los Angeles, gli ambigui punti di contatto tra criminalità e Polizia, il destino amaro di chi è costretto a vivere in una situazione di degrado. In Harsh Times questi contenuti sono veicolati in un sistema espressivo che procede attraverso una chiara accumulazione emotiva. La vicenda dei due nullafacenti che aspirano ad una vita normale, ma che in continuazione delinquono come se ciò fosse del tutto normale, è delineata grazie a un procedimento visuale/narrativo che porta lo spettatore verso una conclusione drammatica ed enfatica ma risolutiva.
Ayer non propone però il solito film sulle gangs ispaniche e afro-americane di Los Angeles ma il racconto di una ricerca scriteriata e ingenua di serenità che porta i protagonisti ad autodistruggersi mentre intorno a loro scorre una vita nella quale i valori essenziali dell’esistenza non hanno contorni ben precisi. Quello dei due giovani personaggi è l’inoltrarsi disperato nell’orrore e nell’angoscia, nella perdita di senso, nello squilibrio di rapporti tra realtà e delirio. Il tutto è reso dall’autore con assoluta perizia tecnica, fattore che trasporta il film in una dimensione che, praticamente, non lascia un attimo di respiro. Harsh Times è un film teso e pieno di citazioni/riferimenti cinematografici. Il filone sembra essere quello del “reducismo militare” (uno dei due ha combattuto in Iraq) ma appare evidente che dietro l’azione creativa di Ayer aleggia la figura di Martin Scorsese.
Una delle critiche che si può muovere all’autore, come già detto, è quella di aver ecceduto nell’uso scioccante e ripetitivo del linguaggio filmico: fotografia sgranata, colori lividi e spenti, rallentatore, sfocature. Ed anche di aver sovraccaricato fin troppo la vicenda di situazioni e atmosfere deliranti e violente. Eppure, proprio in questa indubitabile sovrabbondanza di elementi è rintracciabile la forza del film, sovrabbondanza che trasforma la vicenda di Hars Times quasi in una tragedia greca della Los Angeles dei nostri giorni.
* per concessione della testata giornalistica Cultframe – Arti Visive e Comunicazione (www.cultframe.com)
di Maurizio G. De Bonis