Hannah Arendt
Con Hanna Arendt – film del 2012 che dopo alcuni passaggi festivalieri è stato recuperato nel circuito commerciale soltanto per due giorni, il 27 e 28 gennaio, in occasione del “Giorno della Memoria” – Margarethe von Trotta ci offre un altro ritratto al femminile sullo sfondo della Storia, in particolare quella, già altre volte esplorata, della Germania nazista e della Shoah. Era dunque quasi inevitabile per la regista dare alla Arendt il volto di Barbara Sukowa (che era stata già Rosa Luxemburg nel suo Rosa L. del 1986), attrice di buon talento ma dalla carriera in fondo scarna, i cui momenti più felici sono legati proprio alla filmografia della Von Trotta, sin dai tempi dell’assai controverso Anni di piombo (1981).
Diciamo subito che i meriti del film coincidono quasi interamente con quelli dell’interpretazione della Sukowa che riesce a rendere credibile sullo schermo, nonostante una sceneggiatura per molti versi convenzionale (compresi i continui e fastidiosi flashback), un personaggio complesso come quello della Arendt. Ovvero quello di una donna e di una intellettuale il cui carattere forte e volitivo maschera una fragilità interiore e il dolore incancellabile di una ferita. Complessità e ferite che ben si comprendono solo pensando al vissuto della Arendt: nata agli inizi del ‘900, di origine ebraica, filosofa allieva di Heidegger, perseguitata dai nazisti che troncarono la sua carriera universitaria e la costrinsero all’esilio nel ’33, esule in Francia e dal 1940, dopo Vichy, negli Usa, dove rimase apolide sino al 1951, anno in cui divenne cittadina americana.
Nel frattempo era divenuta anche una affermata studiosa delle dinamiche del Potere, dell’autorità, della politica e proprio nel 1951 era apparso il suo celebre saggio su “Le origini del totalitarismo”. Nel saggio, con illuminante e ben argomentata intuizione (certo, la grande letteratura fantapolitica, da Huxley ad Orwell, aveva già dato buoni spunti in proposito), la Arendt rivelò molte dinamiche che accomunavano nazismo e stalinismo scandalizzando non poco il mondo da poco uscito dalla catastrofe bellica e diviso in granitici blocchi contrapposti, militari, economici, ideologici. Ma ancora più illuminante – e al tempo stesso ancor più “scandalosa” – fu, dodici anni dopo, la pubblicazione in volume (con il titolo “La banalità del male: Eichman a Gerusalemme”) dei suoi articoli per la prestigiosa rivista “New Yorker”, già resoconto dello storico processo (anche sul piano mediatico, un vero “processo-spettacolo”, a differenza di Norimberga) contro Otto Adolf Eichmann, il criminale nazista che i servizi segreti israeliani nel 1960 avevano strappato al suo rifugio in Argentina e tradotto a Gerusalemme (dove, al termine del processo, iniziato nel 1961 e conclusosi nel maggio del 1962, sarebbe stato condannato all’impiccagione).
E’ questo il momento storico e biografico che il film racconta, ovvero la sofferta decisione della Arendt – ben inserita a New York, dove insegna in una prestigiosa università, e la cui casa è ritrovo di scrittori e intellettuali europei e statunitensi – di tornare indietro, alle radici, ma anche a quelle ferite (vanamente ostacolata nel proposito dal marito, il poeta e filosofo tedesco Heinrich Blücher, un solido Axel Milberg): andare a Gerusalemme per seguire il processo Eichmann. Le tesi esposte del libro -comprese la denuncia del collaborazionismo, peraltro storicamente documentato, di molti leader delle comunità ebraiche- le attireranno critiche, accuse, minacce, anche di morte, e l’ostracismo da parte di molti ambienti culturali ed accademici (che comunque non ritrattò mai le sue tesi). In realtà, l’analisi della Arendt, ancora una volta, era “troppo avanti” rispetto alla cultura dominante e alla sensibilità media dell’opinione pubblica.
In estrema sintesi, alcune delle tesi forti con la quale la Arendt spiegava la “banalità” e la “normalità” del male era la natura impersonale -in quanto puramente e astrattamente burocratica- del crimine, anche di quello su grandissima scala come fu il genocidio nazista degli ebrei, ma che poteva essere affidato a uomini qualunque, purché esecutori acritici e fedelissimi di ordini che venivano sganciati dalle loro conseguenze “umane”. Solo perché considerato esperto di “questioni ebraiche”, ad Eichmann venne affidata l’organizzazione scientifica della deportazione di ebrei, gitani, polacchi e sloveni di tutta Europa verso i campi di sterminio. Ancora più profonda nel libro emergeva, infatti, la rivelazione del carattere più subdolo del totalitarismo moderno di cui i lager nazisti furono il primo grande laboratorio: sganciare il castigo dal delitto, e quindi privare il male di ogni nesso di causalità, quindi di ogni senso; al tempo stesso l’organizzazione dei lager, basata sul lavoro forzato senza alcuna ricompensa, serviva a convincere le persone – quelle stesse persone che Eichmann avrebbe definito “materiale biologico” – di essere superflue, o addirittura un peso, Era stata del resto quella degli ordini eseguiti e la inconsapevolezza degli effetti delle sue azioni (insomma, crimini compiuti “a sua insaputa”…) la linea difensiva di Eichmann, che il film documenta facendo ampio ricorso alle sequenze d’archivio in opaco bianco e nero del vero processo. Purtroppo, tali sequenze si alternano a quelle dai colori patinati della ricostruzione “finzionale” del processo: un delitto, a nostro personale parere, tanto sul piano estetico che su quello etico (ma che resta senza castigo) e che registriamo purtroppo in altre opere anche nostrane (come il recente film di successo diretto da Pif sul genocidio nostrano dei delitti e delle stragi di mafia).
Per un approccio diverso alla vicenda specifica raccomandiamo comunque la visione del film del regista israeliano militante Eyal Sivan, Uno specialista – Ritratto di un criminale moderno (1999), che opera con grande intelligenza sui canoni del linguaggio documentaristico e sull’utilizzo dei materiali d’archivio a partire dalle 350 ore di riprese esistenti del processo del ‘61 e che si ispira proprio a “La banalità del male” di Hannah Arendt.
Trama
Fuggita dagli orrori della Germania nazista, la filosofa ebreo-tedesca Hannah Arendt nel 1940 trova rifugio insieme al marito e alla madre negli Stati Uniti, grazie all’aiuto del giornalista americano Varian Fry. Qui, dopo aver lavorato come tutor universitario ed essere divenuta attivista della comunità ebraica di New York, comincia a collaborare con alcune testate giornalistiche. Come inviata del New Yorker in Israele, Hannah si ritrova così a seguire da vicino il processo contro il funzionario nazista Adolf Eichmann, da cui prenderà spunto per scrivere La banalità del male, un libro che darà vita a fortissime controversie.
di Sergio Di Giorgi