Grindhouse – A prova di morte

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grindhouse-imgNato come film a quattro mani, Quentin TarantinoRoberto Rodriguez con un episodio ciascuno di un’ora, Grindhouse si trasforma nel nostro paese in un lungometraggio totalmente tarantiniano che mantiene però la struttura perfettamente speculare della concezione originaria.
Tarantino sta procedendo con molta chiarezza verso l’estremizzazione del suo stile e della sua poetica. Questo suo ultimo film è un abilissimo esercizio di citazionismo cinematografico, confezionato in modo semplice e definito, quasi geometrico. I due episodi sono strutturati secondo una sequenza che si ripete: lunghi dialoghi nella parte iniziale, esplosione della violenza nella seconda. Il vero problema diGrindhouse non è, come qualcuno ha sostenuto, in una deriva citazionistica fine a se stessa ma nella mancanza di una struttura drammaturgica in grado di dare un senso a questa operazione. Quentin Tarantino, come molti importanti cineasti, ha fatto sempre lo stesso film, fin da Le iene, lungometraggi scritti con precisione certosina, grande equilibrio dei dialoghi, potente elaborazione visiva iperrealista.
Il primo episodio di Grindhouse è invece fortemente squilibrato: i dialoghi iniziali tra le protagoniste sono eccessivamente prolissi e l’evoluzione verso il manifestarsi della follia dello psicopatico interpretato da Kurt Russell è approssimativa e poco efficace; il secondo episodio è invece studiato con maggiore attenzione visto che all’ossessiva verbosità delle scene d’esordio si contrappone in maniera appropriata il puro ritmo adrenalinico dell’inseguimento tra due bolidi lungo le strade deserte del Tennessee.

Non ci stupisce che Tarantino abbia spinto fino al parossismo il suo mondo espressivo e, come già detto, sinceramente non ci sembra questa il difetto centrale del film. Ciò che appare fuori luogo, quasi irritante, in Grindhouse è il giochino fine a se stesso teso a ricreare le atmosfere sbrindellate delle proiezioni di film di serie B in sale da quattro soldi di trenta anni fa. Finti salti di montaggio, finti passaggi dal colore al bianco e nero, finta erosione delle immagini. Non c’era bisogno di questi espedienti per restituire allo spettatore la sensazione di essere catapultati indietro, negli anni settanta.
Il lavoro fatto da Quentin Tarantino sulla fotografia e l’uso della musica invece rappresentano i veri punti forti di questa operazione che rischia comunque di nuocere al regista americano, in quanto troppo “da cinephile di nicchia” per piacere in maniera ampia come è successo invece con Pulp FictionKill Bill.


di Maurizio G. De Bonis
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