Grandi speranze

Pubblicato a puntate tra dicembre 1860 e agosto del 1861 sulle pagine del settimanale “All the Year Round” (di cui risollevò le tirature in grande crisi), tra i romanzi di Charles Dickens Grandi speranze è di gran lunga l’opera che ha retto meglio l’usura degli anni, dimostrandosi un evergreen per moltissime generazioni ma anche un inevitabile spunto per il cinema che più di una volta ne ha confezionato versioni per il grande schermo. Versioni che spesso (come nel caso di quella diretta da Alfonso Cuarón nel 1997 e intitolata Paradiso perduto) non sono però immediatamente riconducibili al romanzo dickensiano a causa di diversi titoli scelti di volta in volta.
Non deve quindi stupire se, a quasi sessant’anni dalla celebre trasposizione firmata da David Lean e a quaranta dall’ultima (il meno entusiasmante Tutto mi porta a te diretto da Joseph Hardy nel 1974), nell’anno in cui ricorre il bicentenario della nascita del grande narratore britannico si sia sentito il bisogno di proporre una nuova lettura di quest’opera-mondo che racconta un pezzo di umanità dell’Inghilterra dei primi dell’800 convertendone vizi e virtù in paradigmi universali adattabili a ogni latitudine ed epoca.
La riduzione della non indifferente mole del libro è stata affidata a David Nicholls, autore e sceneggiatore divenuto celeberrimo per il bel romanzo Un giorno (uscito nel 2009 e adattato con successo al cinema l’anno successivo), mentre a dirigere è stato chiamato Mike Newell, regista del fortunato Tre matrimoni e un funerale tornato a misurarsi con un lungometraggio tratto da una fonte letteraria dopo averlo già fatto con Harry Potter e il calice di fuoco e L’amore ai tempi del colera.
Quella prodotta dalla BBC – che negli anni ha già sfornato svariate edizioni ‘dilatate’ per il mezzo televisivo (delle quali resta impressa nella memoria quella del 1999, con Charlotte Rampling responsabile di una Miss Havisham veramente ai limiti della ferocia disumana) -, e firmata dal duo Newell-Nicholls è una versione sostanzialmente fedele al romanzo, le cui uniche modifiche degne di nota si riducono all’inevitabile compressione della materia narrativa, allo spostamento cronologico di alcuni episodi non decisivi e soprattutto alla rinuncia dell’espediente della voce fuori campo che, nelle precedenti versioni, era stato il corrispettivo filmico del racconto in prima persona fatto dal protagonista Pip.
Come spesso accade a film sartoriali di questo tipo, l’attenzione per la messa in scena rasenta la maniacalità, privilegiando aspetti esterni ed esteriori rispetto allo scavo e all’analisi delle interiorità complesse e tormentate di quasi tutti i personaggi che il teatrino allestito da Dickens fa interagire in questo impressionante spaccato sociale dell’Inghilterra dei primi trent’anni dell’800. Sontuosa come un abito difficile da portare per il peso che comporta ma poco pratico quando si tratta di muoversi con agilità, questa nuova versione di Grandi speranze non aggiunge molto a quanto già fatto vedere nelle moltissime (la prima è addirittura un muto del 1917!) succedutesi negli anni. Anche perché sarebbe davvero difficile pensare a una lettura rivoluzionariamente innovativa di un testo sopravvissuto indenne ai secoli e capace ancora oggi di sembrare più avanti di qualsiasi opera letteraria e cinematografica che abbia l’ambizione di riassumere in se stessa – come un onnicomprensivo Bignami di lusso – la complessa stratificazione di una società come era quella in cui si muovono convulsi i personaggi del romanzo.
Pur vivisezionando l’Inghilterra dei primi anni del XIX secolo, da grande classico qual è il romanzo di Dickens assembla nel tritacarne della sua analisi impietosa una serie di temi destinati a funzionare sempre e dovunque: dal maltrattamento dei minori alla scalata al successo partendo dagli abissi della disperazione sociale, dalla vendetta covata per anni allo scontro tra i sessi nell’eterno confronto che li oppone, dalla lotta per la sopravvivenza in un mondo che cambia veloce alla giustizia e al suo uso strumentale, dalla sperequazione sociale alla possibilità di redenzione che tocca a chiunque abbia volontà e ingenio sufficienti per tentare la scalata, e ovviamente il trionfo del Bene sul Male.
Ciò nonostante, Newell e Nicholls hanno però capito di dover intervenire sulla struttura monolitica del romanzo rendendola più cinematograficamente digeribile e puntando così su alcune componenti che si potevano prestare a una maggiore spettacolarizzazione. Per questo nel film ci sono vaghe sfumature da noir affidate a una serie di presunti misteri cui si allude fin dalle prime battute (le ragioni per cui Miss Havisham si comporti in maniera tanto sibillina, la vera natura del benefattore del protagonista Pip, la sorpresa finale legata al personaggio di Estella), nonché un’intenzionale insistenza sul pedale del sentimentalismo che porta il film a trascurare la rilevanza delle problematiche storiche per avvitarsi in una deriva romantica un po’ troppo insistita.
Deriva cui contribuisce in maniera non irrilevante l’atteggiamento di alcuni degli attori chiamati a dare corpo ai personaggi principali del film. Se infatti il Pip di Jeremy Irvine (il ragazzo che sussurrava ai cavalli nello spielberghiano War Horse) ha l’aria del sognatore che osserva stupito la realtà lasciando che il suo balletto imprevedibile sfiori il corso della sua biografia cambiadolo in modo radicale, l’Estella disegnata da Holly Grainger (che, pur se giovanissima, si può già dire un’habitué del cinema in costume essendo stata Lucrezia Borgia in un bel serial TV della BBC nonché aver gestito ruoli importanti in Jean Eyre e Bel Ami, tra 2011 e l’anno in corso) è a tratti fin troppo monocorde e assente per dare gelida credibilità a un personaggio molto più complesso della lettura monodimensionale che la giovane attrice ne dà. Lo stesso dicasi di Helena Bonham-Carter la cui miss Havisham è troppo gotica e dark per non far pensare a una specie di marchio di fabbrica (l’essere cioè la moglie di Tim Burton e dar sempre l’impressione di avere il consorte che le sussurra indicazioni di scena quando recita) che rispunta incontrollabile come un herpes attorale qualunque sia il personaggio da lei interpretato. Cosa che invece non capita a Ralph Fiennes, maiuscolo nel tratteggiare un Magwitch sempre in bilico tra l’orrore del baratro e la grandezza d’animo che lo contraddistingue come il più positivo di tutti gli antieroi del romanzo di Dickens.
Anche se alla fine non è facile resistere all’impulso di catalogare questa nuova incursione celebrativa nell’universo autosufficiente di Grandi speranze come un bell’esercizio di stile un po’ freddo e fine a se stesso, va detto che il film di Mike Newell resta comunque uno spettacolo sontuoso, con magnifici esterni ed interni d’epoca girati in Inghilterra, e destinato a non deludere i moltissimi appassionati del libro, che al massimo si potranno lamentare di qualche piccola licenza e di interventi di aggiornamento caratteriali effettuati sulle psicologie di alcuni personaggi in modo da renderli almeno in parte più commestibili per il pubblico dei nostri giorni.
Trama
Cresciuto prima nella casa dell’arcigna sorella e poi affidato alle cure di una bizzarra nobildonna della cui figlia Estella si innamora perdutamente rimanendolo per tutta la vita, l’orfano Philip Pirrip detto Pip vede cambiare in maniera improvvisa e radicale la propria esistenza grama quando un misterioso benefattore gli assegna una fortuna chiedendogli in cambio soltanto di trasferirsi a Londra e farsi strada nell’alta società. Ma per lui non sarà tutto rose e fiori come potrebbe sembrare e, dopo numerose avventure e incidenti di percorso, Pip tornerà al paese d’origine per trovare un senso della vita nell’onestà del lavoro manuale.
di Redazione