Gran Torino

Gran Torino, l’ultimo film di Clint Eastwood, è stato praticamente ignorato dall’Academy in occasione del recente premio Oscar. E ci si domanda come possa essere avvenuto ciò. Forse perché The Millionaire di Boyle meglio incarnava l’onda nuova dello storico cambiamento obamiano, o forse perché Eastwood ha già vinto troppe statuette? Al di là, comunque, delle normali incongruenze, il film, oltre a riconfermare la qualità del regista, esprime i valori fondamentali di una nazione che ha sempre trovato nella convivenza tra popoli diversi, il suo punto di maggior coesione e dinamismo.
Walt Kowalski, è un ex operaio della Ford che ha combattuto in Corea; uomo duro e intransigente, alla morte della moglie si ritrova solo e invaso dal disprezzo per figli e nipoti, anaffettivi e superficiali. Anche gli abitanti del quartiere, in gran parte asiatici di etnia hmong, sono a stento sopportati dall’uomo, che non manca occasione per insultarli e deriderli. La vita per Walt trascorre appartata, tra lattine di birra ghiacciate, in compagnia dell’amato cane e della sua Gran Torino, gloriosa decappottabile Ford degli anni Settanta, preservata con maniacale dedizione. L’inaspettato incontro con Sue e Tao, due ragazzi hmong vicini di casa, scioglierà il cuore del vecchio Kowalski, indurito dagli orrori della guerra e dai pregiudizi, e lo aiuterà a superare il razzismo e a riconciliarsi con se stesso.
Eastwood sceglie una storia semplice e universale per parlare, senza retorica, del suo paese e di realtà spesso trascurate e lontane dai riflettori della grande politica: di quell’America di periferia, povera e degradata, lasciata in balìa di gang senza controllo; di una società multietnica e diversificata, che vive i conflitti di una “differenza” che non sempre riesce a integrarsi; della deriva morale della società contemporanea, nella quale si scorge più un vuoto che un ricambio di valori. E poi, la grande chance del sogno americano, grazie al quale tutto è possibile, perfino che un afroamericano sia eletto Presidente e che il preconcetto si trasformi in solidarietà, la diversità in ricchezza, unendo i popoli nel nome di un solo Stato.
Gran Torino, affronta anche il tema del rapporto dell’uomo con la propria coscienza e con le conseguenti responsabilità, quando, al tramonto della vita, ricerca un senso da dare al proprio vissuto e un’assoluzione per gli errori commessi. E così, il coriaceo Kowalski si redime dalle atrocità commesse in Corea, sacrificando la vita per quella dei suoi due amici hmong e recupera la dimensione filiale e affettiva di padre, rifiutata in gioventù, iniziando Tao alla maturità. A questo giovane ragazzo asiatico, ricco di umanità, Walt lascia in eredità il suo cuore, quella Gran Torino, simbolo di tutte le sue convinzioni, verso cui ha nutrito quei sentimenti che la vita non gli aveva saputo ispirare: “Il cuore è rinchiuso in una Gran Torino, batte un ritmo solitario per tutta la notte” recita la canzone che accompagna i titoli di coda.
Sia dal punto di vista della struttura formale, sia da quello contenutistico, il film si mantiene su un livello tradizionale, non solo in rapporto a un certo cinema americano “politically incorrect”, ma anche rispetto all’opera dello stesso Eastwood, che non è nuovo nei panni di carismatica figura di padre putativo (Un mondo perfetto, Mystic River, Million Dollar Baby) o nel trattare il tema del superamento del senso di colpa attraverso il sacrificio. Gran Torino, però, impiega anche un linguaggio stilistico abbastanza audace, caratterizzato dall’uso frequente della soggettiva, che dà voce al ghigno muto e rabbioso del protagonista, dall’incursione ravvicinata con i personaggi dentro la scena (per esempio nella sequenza della lite davanti alla casa dei Lor) e dalla commistione di toni da commedia (sminuiti dal doppiaggio italiano, dove lo slang ironico di Walt è notevolmente semplificato) con toni drammatici; inoltre, il film è girato in uno spazio prevalentemente unico, evidente metafora di un microcosmo esistenziale.
Ci auguriamo, che questo film non sia davvero per Clint Eastwood il canto del cigno, non tanto perché non condividiamo l’espressione, ma in quanto speriamo di poter godere ancora per molto tempo di questo grande autore, classico e duramente contemporaneo.
di Amanda Romano