Good Kill

Andrew Niccol ama le storie sospese tra l’attualità più immediata e il prossimo futuro. Ma anche quando scandaglia l’oggi si interroga sul domani. Good Kill, ambientato (ci avvisa una didascalia) nel 2010 e tratto da una storia vera, parla del presente intercettando tutte le nevrosi dell’avvenire. Tommy Egan, il protagonista, è un top gun trasformato in pilota di droni, un uomo che la guerra l’ha fatta tra le sabbie del deserto e il cielo e che ora la ripete davanti alla consolle di una sofisticatissima playstation. La delocalizzazione non è solo fisica, ma anche psicologica, etica e morale. L’American sniper dei nostri giorni lavora a pochi chilometri di distanza dalla sua casa e dalla sua famiglia a Las Vegas. La paura e l’adrenalina che caratterizzarono le sue giornate in Afghanistan e in Iraq sono dimenticate. Anzi rimpiante.
Good Kill, espressione nota tra i militari americani per indicare il raggiungimento del bersaglio, rappresenta a tutto tondo il tormento dell’uomo causato da uno strumento che lo aliena dalla realtà. Come mantenere una condotta responsabile, anche a migliaia di chilometri dalla vittima designata? Come conservare il senso del giusto e dello sbagliato? Fino a che punto la guerra a distanza può intorpidire le coscienze? E come verificare effettivamente la pericolosità e la colpevolezza di una persona che vive in un luogo sconosciuto di un altro continente e che è inquadrata da un drone che passa a tremila meri d’altezza? Si può bombardare un gruppo di probabili terroristi se al loro fianco ci sono civili inermi? E infine: è giusta la guerra preventiva?
Sono tante e importanti le domande che pone questo film. Apparentemente Niccol rivendica il diritto di raccontare tutto minuziosamente, senza prendere posizione e lasciando la scelta allo spettatore. Il rischio è quello di costruire un’opera ambigua e infarcita di falsa coscienza, dove si accettano, anche senza rendersene conto, delle premesse che andrebbero discusse e magari respinte. Il ricordo di Lord of War, l’unico film di Niccol prima di questo non ambientato nel futuro, ci faceva temere il peggio: giustificava l’amoralità di un trafficante d’armi con la scusa che le colpe stanno in alto, che il Male è necessario. Questa volta Niccol delega a brevi dialoghi i pro e i contro e finge di limitarsi a lanciare avvertimenti morali. In realtà il film, forse anche per incapacità del regista, porta lo spettatore dalla parte dei deboli, cioè degli uomini in bicicletta che imbracciano il kalasnikov, e contro i marziani che fanno la guerra con il joystic. Ma le argomentazioni sono debolissime.
Come in In Time, apologo sui legami tra i soldi e il tempo, anche qui Niccol eccelle nell’ideazione del soggetto ma non ha la forza di scrivere tutta la sceneggiatura con il vigore della provocazione. La crisi del protagonista non è politica, e quindi contagiosa, ma è una forma di depressione che la vittima affronta con l’alcol e tra le pareti domestiche. E, per di più, è convinto di poter superare la crisi ritornando a volare sugli F16 dove il guerriero assume un suo rischio personale. Alla fine usa il joystick per compiere un’azione da giustiziere della notte (uccide un talebano stupratore seriale) e risolvere così con un’iniziativa personale il suo problema esistenziale. Poi si dimette, forse diserta, ma salta sulla sua auto per andare a ricostruire la sua famigliola. Si dimette anche il suo principale collaboratore, una donna, di cui non conosciamo le motivazioni ma, ahimé, vediamo le lacrime di fronte al cinismo di questa guerra. Dalle domande iniziali si poteva sviluppare ben altra storia, ben altra riflessione.
Good Kill gioca e spreca altre valide carte proponendosi come rivisitazione radicale di un sottogenere cinematografico molto frequentato, quello del film sui reduci di guerra. Qui non c’è nessuna decompressione, nessuna distanza temporale fra la guerra e il rientro nella vita civile. Tornato in America, Tommy uccide gli stessi talebani, ma restando in un comodo prefabbricato con aria condizionata nel deserto del Nevada. E poi, finito il turno, raggiunge a Las Vegas moglie ei figlioletti nel loro villino unifamiliare. Logico che la confusione morale sia dietro l’angolo e non tardi a rivelarsi. I reduci conosciuti sullo schermo, ritornati a casa dopo la Guerra di secessione, o due guerre mondiali, o la Corea o il Vietnam, avevano ben altri problemi.
Una guerra più che fredda, quella di Good Kill: astratta, virtuale, quasi metafisica. Dallo sceneggiatore di The Truman Show e dal regista di Gattica ci saremmo aspettati una riflessione consapevole sul controllo assoluto che l’occhio del drone fa delle nostre vite. Un occhio non più umano, come quello del Truman Show, ma divino per quella sorta di punizione, che sotto forma di missile, cade dal cielo per colpire i cattivi o i presunti tali. Anche se l’impiego delle riprese dall’alto del deserto del Nevada, di Las Vegas e della villetta monofamiliare, parallelo alle riprese dall’alto dei villaggi di fango nei deserti del Waziristan, dell’Afghanistan e dello Yemen, ci dicono che il regista qualche giusta tentazione l’aveva avuta. Peccato.
Trama
Tommy Egan, pilota di caccia reduce da Afghanistan e Iraq, si trova a lavorare nel Nevada, a pochi chilometri dalla sua casa di Las Vegas, in un prefabbricato da dove guida i droni da combattimento contro gli obiettivi che una volta colpiva dal suo F16. Il lavoro lo prova psicologicamente e moralmente e frantuma l’unità familiare. Alla fine, lascia l’incarico.
di Giorgio Rinaldi