Gli amori folli

Ottantotto anni. Una vita passata nel cinema. Nel 1959, l’anno in cui realizzò il suo capolavoro Hiroshima mon amour, aveva già portato a termine ventisei opere tra corti e documentari. Stiamo parlando di Alain Resnais, maestro della cinematografia francese che ha sempre percorso strade anticonvenzionali, stravaganti, ostiche, personali. Il suo è un cinema filosofico e teorico, una sorta di mosaico di saggi visuali nel quale, di volta in volta, vengono affrontate le questioni della memoria, del tempo del racconto, della bizzarria della vita, dell’irrazionale, del passato e del presente. Non c’è opera di Resnais che non sia degna di essere studiata e analizzata, anche quando sembra che l’autore de L’anno scorso a Marienbad abbia girato un film leggero, un divertissement.
La sua ultima fatica artistica si intitola Gli amori folli. E di folle c’è tutto in questa storia apparentemente sgangherata che in realtà ci parla filosoficamente del non senso dell’esistenza e dell’inconsistenza delle azioni umani. Non solo. Resnais si spinge con freschezza nel labirinto del pensiero umano, evitando però di cercare una via di uscita. Tenta, invece, di abbandonarsi all’abisso che si nasconde dietro la vita, dietro gli incontri e le relazioni interpersonali.
Marguerite e Georges sono i personaggi centrali di questa storia senza una struttura precisa, in cui il tempo cronologico si interrompe, si perde e si ritrova senza un vero motivo. I due si incontrano per caso, si cercano con metodi e tempi molto differenti. Soprattutto, immaginano qualcosa che forse potrebbe verificarsi (o si è già verificato) ma che probabilmente sognano, semplicemente.
Resnais sembra concentrarsi sul flusso del pensiero, sull’emozione incontrollabile della percezione, sul senso di smarrimento che si prova quando si cerca di razionalizzare le nostre giornate e di dare una sostanza ai nostri rapporti con gli altri.
Ecco, dunque, che tale impostazione concettuale viene elaborata visivamente dall’autore grazie a movimenti di macchina e inquadrature che “guardano” altro, che si disinteressano dell’azione, che indugiano sul nulla. Un brandello di asfalto, un prato verde e selvaggio, l’interno di una casa. Tutto sembra importante e superfluo allo stesso tempo, esattamente come le componenti irrazionali della nostra esistenza. Ciò che si avverte in questo lungometraggio è un’assoluta libertà creativa, la capacità da parte di Resnais di distaccarsi dal reale, dal verosimile, dalla narrazione codificata. Tra provocazioni filmiche, piccole incursioni surrealiste, contraddizioni, improvvise accelerazioni si snoda una vicenda enigmatica, così come enigmatico all’ennesima potenza è il sentimento che lega i due personaggi principali.
André Dussolier è un ottimo interprete maschile: sottile, elegante, capace repentinamente di cambiare registro, sempre raffinato. Sabine Azéma appare invece più ordinaria e prevedibile, anche se la sua presenza scenica (aumentata da una testa gonfia di capelli ipercotonati) non è mai da sottovalutare.
di Maurizio G. De Bonis