Gli abbracci spezzati
Un’oscurità pari alla morte, questa è la cecità per Mateo Blanco, un uomo che, da regista, ha vissuto per immagini ed ora, nel buio al quale è costretto da 14 anni, non ha che la sua memoria a fargli da moviola per ricomporre, pezzo dopo pezzo, il tragico puzzle di un amore che gli ha segnato il destino.
Il film di Almodóvar è spiazzante e, proprio per questo ancor più seducente. Non è la vicenda narrata la chiave di volta della storia ma, semmai, ne diventa lo spunto iniziale poiché Gli abbracci spezzati è sì il racconto di una passione ma non già quella tra Mateo e la bella Lena, quanto quella tra il regista e il cinema. Classe 1951, Almodóvar sembra qui trovarsi quasi a “fare i conti” con la sua poetica e con la sua ispirazione. Mette in campo gli “attrezzi del mestiere” ed enfatizzando in modo drammatico (e drammaturgico) l’uso del montaggio, (ci) racconta la sua storia attraverso quello che è il linguaggio peculiare della settima arte.
Dall’uso del flashback al doppiaggio, fino alle immagini “rubate” dal set, il cineasta spagnolo sottolinea non solo la bellezza ma quell’unicità emotiva, potente ed evocativa, che il cinema rende possibile. Gira la bobina, si riavvolge il nastro e il passato si fa presente, il film si mescola con un altro film e riporta in vita un amore perduto, una passione che fa da folle nutrimento alla stessa vita. E’, inoltre, un film sul doppio, inteso come duplicazione e, nel contempo, ampliamento. Dal girato alle immagini del “making of”, infatti, i protagonisti vivono, sullo schermo e fuori, una vita che si raddoppia in un gioco di identità usate per vivere o, anche, per sopravvivere: ad un dolore, ad una perdita, ad un amore non corrisposto…
Spezzati sono, infatti, gli abbracci dei due amanti ma anche le anime di coloro che, spinti dai motivi irrazionali del cuore, hanno segnato il tragico epilogo della storia tra Mateo e Lena. Almodóvar, anche stavolta, racconta l’amore ma va oltre, mettendo se stesso, come forse mai prima d’ora, in ogni singolo fotogramma. Attinge dal proprio passato, attraverso i riconoscibili riferimenti al suo cinema, ma anche dai grandi maestri che hanno segnato il suo percorso di artista.
Penelope Cruz, in perfetta empatia con il suo personaggio come sempre le accade quando è diretta da Almodóvar, è non soltanto Lena ma la summa delle femmes fatales di celluloide, eroina tragica strappata alla vita e alle braccia dell’amato come nel più classico dei melò. Stavolta, però, il regista non sembra cercare il coinvolgimento o la stretta dal cuore, quanto l’attenzione dello spettatore su quella che è la linfa vitale della sua esistenza: fare cinema. Una sorta di confessione che ha il sapore autentico di un atto d’amore e nel renderlo pubblico, Almodóvar si espone senza filtri, né scudi ad ogni personale interpretazione, rischiando – come infatti accade – di non essere compreso, né apprezzato fino in fondo. Gli abbracci spezzati è, proprio per questo, il suo film più coraggioso, nato da quelle idee che, come le definì Goethe, “sono come le pedine degli scacchi: possono essere mangiate ma anche dare avvio ad un gioco vincente”.
* Per concessione di Cultframe – Arti Visive (www.cultframe.com)
di Eleonora Saracino