Giù al nord

Commedia intelligente punteggiata di gag irresistibili, capace di ironizzare acutamente senza mai deridere, Giù al nord ha conquistato la Francia, dove è stata un clamoroso, inaspettato successo. Dany Boon, protagonista da molti anni di una serie di one man show, lo dirige e lo interpreta riuscendo a trovare il giusto equilibrio per entusiasmare il pubblico senza però mai scadere nella banalità. Lontanissimo dalla volgarità insulsa che in Italia troppo spesso caratterizza quelle commedie fatte in serie che vergognosamente riempiono i cinema ad ogni Natale, il film fa sua una comicità semplice ed efficace, ed ha al contempo il merito di affrontare un argomento niente affatto superficiale. La riflessione che sta al centro del film è infatti quella sui pregiudizi e le diversità, sui luoghi comuni e le incomprensioni, che se in questo caso riguardano il rapporto tra gli abitanti del nord e del sud della Francia, possono di sicuro toccare – e anche profondamente – un paese come l’Italia, in cui, nel bene e nel male, le singolarità regionali sono senza dubbio fortemente sentite. Non è sempre facile trattare in chiave comica un tema così delicato col tatto necessario, ma il regista trova l’approccio adatto dosando in modo efficace note di comicità pura e di velata malinconia, situazioni al limite del surreale ed equivoci esilaranti.
Il protagonista del film, Philippe Abrams, è un impiegato delle poste che vive con la famiglia nell’assolato e ridente Sud, ma, non contento, si finge disabile per ottenere un trasferimento nell’ambita e agognata Costa Azzurra, desideroso, oltre che di godersi il mare, di accontentare una moglie giovane e un tantino capricciosa. Una delle sequenze più spassose è senza dubbio quella in cui viene smascherato il suo patetico, cinico tentativo di fingersi obbligato su una sedia a rotelle quando arriva un funzionario mandato ad appurare la regolarità della pratica di trasferimento. Dopo una sequela di frasi retoriche e innegabilmente ipocrite, con cui vuole convincere della sua onestà l’uomo sospettoso che gli siede di fronte, Philippe fa un unico, irrimediabile, clamoroso errore: al momento del congedo, automaticamente, si alza di scatto in piedi per stringergli la mano, e la sedia a rotelle – già malridotta – cade con un fragoroso rumore cui segue un imbarazzato, esilarante silenzio. “Che vergogna”, sono le uniche, meste parole che Philippe riesce a pronunciare in un sussurro. Per punizione verrà spedito repentinamente a lavorare nel gelido, inospitale, arretratissimo nord. O almeno, questa è la visione che del Nord condividono Philippe e sua moglie, la quale, molto depressa e insieme preoccupata, non se la sente di seguirlo in questo luogo infernale e decide di restare nel più ameno e civilizzato sud. Il protagonista parte per queste terre selvagge e lontane bardato come se si accingesse ad una eroica spedizione polare. Ovviamente arriverà in una graziosa cittadina dove, dopo qualche titubanza iniziale nonostante la calorosa accoglienza, si abituerà presto al cibo insolito e allo strano dialetto, ma soprattutto all’amicizia sincera dei suoi allegri e spiritosi colleghi di lavoro. Quando nei week-end torna a casa trova una moglie contenta di coccolarlo e consolarlo per la vita amara e aspra che è costretto a sopportare nel buio e freddo Nord, e alla quale diverrà sempre più difficile raccontare la verità.
In perfetta sintonia con il bravo Kad Merad che interpreta Philippe, Dany Boon diverte e quasi commuove nei panni dell’affettuoso Antoine, postino e campanaro del paese, succube di una madre tirannica e consumato dall’amore per una bella e dolce collega. Insieme i due percorreranno ubriachi le vie del paese su traballanti biciclette cariche di lettere, uniti da un amicizia generosa che diverrà sempre più stretta. In un film in cui l’idea della diversità e la comicità si esprimono soprattutto a partire da una differenza linguistica (causa di non pochi equivoci) ci si chiede quanto il doppiaggio italiano, costretto a inventare un dialetto inesistente, abbia pesato sui dialoghi, che spesso si basano su fraintendimenti linguistici e giochi di parole, e più in generale sulla godibilità del film. Ma è indubbio che, grazie anche all’ottima interpretazione degli attori, nella versione italiana il film conserva (quasi) tutte le sue particolari doti di freschezza e originalità.
di Arianna Pagliara