Ghost Dog – Il codice del samurai
La riflessione relativa a Ghost Dog, di Jim Jarmusch, a cura di Emanuele Rauco.
Riceviamo e volentieri condividiamo un estratto di Blue Moon. Viaggio nella notte di Jim Jarmusch, libro scritto dal socio Emanuele Rauco dedicato al regista.
Dopo la sbronza con Neil Young e il rock ’n’ roll, Jarmusch si apre a un altro mondo, a un’altra comunità, a un altro specifico culturale: il ghetto, la comunità afro-americana della costa est, la loro musica e anche il mélange che fonda quella comunità. Ghost Dog è un film del tutto multirazziale, in cui si mischiano e si fondono provenienze etniche e geografiche da tutto il mondo: Italia e Stati Uniti, Africa e Giappone, Europa e Asia. Ed è la musica a tenere insieme tutto, l’hip hop in particolare, nello specifico quello di RZA, membro del Wu-Tang Clan, che della contaminazione ha fatto un marchio di fabbrica, basti pensare che il suo esordio come regista è L’uomo dai pugni di ferro (2012), una sua versione del cinema di arti marziali orientali.
Questa passione – condivisa da una buona fetta della cultura afroamericana – è il gancio che ha portato l’artista rap a curare la colonna sonora originale e aiutare Jarmusch nella scelta delle canzoni che accompagnano il viaggio urbano di Ghost Dog (Forest Whitaker), sicario dedito al codice dei samurai e devoto al suo “padrone” Louie (John Tormey), mafioso che 8 anni prima lo ha salvato da un gruppo di picchiatori. Durante un colpo, il sicario coinvolge indirettamente la figlia del boss, che non perdona e chiede a Louie di ammazzare il suo “samurai”.
Se ogni azione del sicario è regolata dal codice dei samurai, ogni tema, scelta, direzione del film sembra guardare più o meno consapevolmente alla cultura hip-hop: ma un po’ paradossalmente, Ghost Dog è il trionfo della musica e del suono sulla parola, sul suo significato. Per il Jarmusch regista, la musica in fin dei conti è sempre stata questo, un paesaggio sonoro capace di arricchire l’immagine, di punteggiarla, di darle o toglierle ritmo, un eterno ritorno di suoni e melodie capace di scandire ripetizioni e variazioni, dalle citazioni di Bartok del primo film proprio fino a Young; per l’uomo invece è uno dei piaceri della vita: puntina sul vinile, caffè e sigaretta. Oppure compact disc come fa Ghost Dog, che a volte ruba un auto solo per avere un supporto su cui ascoltare musica. Ghost Dog è una delle più sottili incarnazioni per immagini di cosa sia l’hip-hop, come si struttura, quali ne siano gli spiriti alla base, come trasportare a livello profondo di regia un modo di pensare la musica. Che a farlo sia un bianco, che con l’hip-hop non c’entra nulla, è proprio uno dei nodi del pensiero di Jarmusch, uno per cui le definizioni e i ruoli stabiliti non hanno mai avuto senso, ma che allo stesso tempo si guarda bene dal cadere nell’appropriazione culturale.
Denso, costruito su strati di significato, su campionamenti cinefili, inclassificabile e liquido come i movimenti del contemporaneo samurai e del rap targato RZA, pieno di elementi visivi e sonori che compongono un mosaico a tratti sfuggente, Ghost Dog è uno dei film più amati e studiati di Jarmusch, uno di quelli diventati un cult movie tanto da far parlare ogni tanto di un seguito o di una serie tv. É senza dubbio uno dei suoi film migliori ed è anche l’apice del suo rapporto con la musica, perché è un rapporto che può prescindere dall’amore, dalla conoscenza: alle prese con un genere musicale
a lui poco affine, il regista ha potuto imporsi una certa distanza per capirne dinamiche e sfumature e renderle parte del tessuto della sua regia, ha potuto immergersi in suoni e ritmi con orecchio puro e tramutarli in cibo per i suoi occhi. In qualche modo, una pietra tombale (e infatti, l’ideale successore The Limits of Control avrà un andamento funereo e quasi privo di musica). Perché come dice Yamamoto, “la fine è importante in ogni cosa”.
di Emanuele Rauco