Galline in fuga – L’alba dei nugget
La recensione di Galline in fuga - L'alba dei nugget, di Sam Fell, a cura di Guido Reverdito.

C’era una volta la Aardman Animations. Ovvero quella fucina di creatività allo stato puro che a partire dalla fine degli anni ’90 ha imposto il proprio inconfondibile marchio di fabbrica con serie e film diventati di culto quali quelli con al centro i personaggi di Wallace & Gromit o Shaun the Sheep. C’era una volta e di fatto c’è ancora.
Ma vedendo questo sequel di Galline in fuga – uscito 23 anni or sono e ben presto convertito in pietra miliare non solo per i risultati inarrivabili raggiunti nella complessa tecnica di animazione cara ai guru della casa di Bristol, ma anche per il tipo di messaggio veicolato dalla sceneggiatura avanti anni luce rispetto alle urgenze animalistiche dei giorni nostri –, è difficile credere che il sequel da poco disponibile su Netflix (Galline in fuga – L’alba dei nugget) sia veramente stato concepito da quello stesso detonatore di genialità.
I personaggi sono i medesimi del primo atto. L’attenzione qui si sposta su Molly, la giovane rampolla di Gaia e Rocky, che, da brava adolescente insofferente delle regole imposte dai genitori, scappa attirata da quella che crede essere una sorta di paese dei balocchi per pollame, ma che in realtà si rivela essere una versione tecnologicamente avanzata del peggiore allevamento in batteria per macellazioni seriali volte solo ad alimentare l’alienazione del consumismo alimentare da fast food.
Il messaggio affidato ai pupazzetti animati in claymation (il tipo di stop motion adoperato dalla Aardman) e con la tradizionale distinzione manichea tra buoni e cattivi è forte, tanto quanto quello lanciato a grandi e piccini 23 anni fa. Ma rispetto al film di cui questo è il sequel, mancano troppe delle spinte innovative e propulsive che lo avevano reso un unicum nel panorama del cinema per il pubblico in erba e non solo.
Se il messaggio forte c’è, unito all’idea – anche questa tipica in casa Aardman e molto british nella sua essenza pura – che la sola salvezza possibile sia la fuga dai rischi dell’alienazione da modernità verso piccole oasi protette di provincia, quel che manca qui è il traino dell’autoironia. Tutto è preso sul serio. Troppo sul serio. Come se il film volesse parlare solo a quella generazione Z incapace di ridere sui guasti del mondo e pronta sempre a imbronciarsi seriosa di fronte a ogni stortura della vita.
Azione (da sempre un pilastro della casa per dinamismo e fluidità nel movimento) ce n’è da vendere. Quasi troppa perché la corsa verso l’accumulo di sequenze che si inseguono in fuga è talmente frenetico da convertire il tutto in una parodia forse involontaria di film di spionaggio degli anni ’60. Accumulo che alla fine annoia e stufa non solo perché crea assuefazione ed è meno fluido che in passato, ma anche perché in tutti i precedenti prodotti targati Aardman la frenesia dell’azione era l’apice della narrazione e non la norma. Crisi di ispirazione là dove l’ispirazione geniale era il motore immobile della creatività? La risposta è però più semplice. Nick Park e Peter Lord, per anni le menti che hanno reso la Aardman quello che è ed è stato per decenni, qui non hanno alcun ruolo creativo, essendosi limitati solo a sfornare quello che voleva essere un grido di allarme contro l’alienazione dell’allevamento intensivo, ma che alla fine risulta ironicamente solo un prodotto fatto in serie difficile da distinguere da troppi altri già visti e rivisti.

di Guido Reverdito