Furiosa: A Mad Max Saga
La recensione di Furiosa: A Mad Max Saga, di George Miller, a cura di Boris Schumacher.
Si rimane un po’ interdetti al termine della visione di Furiosa: A Mad Max Saga (da qui in avanti solo Furiosa), il quinto capitolo della fortunata e longeva saga di Mad Max presentato fuori concorso alla 77ma edizione del festival di Cannes. Insieme al terzo capitolo, uscito nel 1985, l’ultimo che vede Mel Gibson nel ruolo dell’ex poliziotto Max, è il film che più tradisce e più si allontana dallo spirito di fondo che caratterizza e contraddistingue il franchise fin dal suo esordio, risalente al lontano 1979, distribuito in Italia con un titolo completamente diverso dall’originale, Interceptor. Titolo che faceva riferimento al modello dell’automobile guidata dal protagonista, ripreso e utilizzato anche per il secondo capitolo, Interceptor – Il guerriero della strada (1981).
Uno dei problemi principali di Furiosa, una sorta di prequel e insieme spinoff di Mad Max: Fury Road, sta nel nuovo villain, Dementus, interpretato da Chris Hemsworth che durante la conferenza stampa di presentazione a Cannes, da buon australiano e quindi conterraneo del regista George Miller, ha dichiarato che far parte del cast di un film di Mad Max rappresenta per lui il coronamento di un sogno. Dementus è un personaggio che probabilmente è stato mal delineato già in fase di sceneggiatura; sopra le righe, debordante e logorroico, eccessivamente istrionico per una saga che è da sempre incentrata su individui poco loquaci, buoni o cattivi che siano. Dopo un inizio suggestivo e promettente, con Furiosa ancora bambina rapita e strappata dal Luogo Verde delle Molte Madri da una banda di motociclisti che sembra quasi omaggiare Sentieri Selvaggi, il western capolavoro di John Ford, il film a poco a poco perde smalto e compattezza, soprattutto nella parte finale dove tende a “normalizzarsi” e a “marvellizzarsi”, a tirarla per le lunghe con dialoghi inutili e protratti all’infinito. In Furiosa abbondano le battute di spirito, c’è un’ironia ostentata e fuori luogo affidata quasi sempre a Dementus (nomen omen). Più che la computer grafica, mai così presente e invasiva in un film della saga, a stonare è il suo avvicinamento ai canoni del cinecomix, un genere ormai inflazionato e in affanno negli ultimi anni a livello artistico e creativo.
A rivedere i primi due – brutali, minacciosi e insuperabili – capitoli di Mad Max, d’ironia ne troviamo assai poca, peraltro quasi completamente assente anche in Fury Road. Mad Max ha fondato un immaginario, potente e riconoscibilissimo, ha dato il via e reso popolare un genere cinematografico, il post apocalittico, che si nutre di sangue, disperazione, polvere, violenza, ferocia e sporcizia. Mad Max nasce in Australia, lontano dai blockbuster americani di fine anni ‘70 e inizio ‘80, più miti ed edulcorati. Dopo l’enorme successo riscosso dai primi due film, Miller già nel terzo capitolo si era in parte allontanato dalle atmosfere che avevano contraddistinto la sua creatura, con un deciso avvicinamento ai blockbuster statunitensi e alle atmosfere da avventura spielberghiana e lucasiana, più vicine e consone a Indiana Jones che a Mad Max.
Mad Max è (era?) una saga analogica, legata ad un’era cinematografica ormai lontana e conclusa da tempo. Quando ha girato Fury Road, trent’anni dopo la fine della prima trilogia, Miller ne era ampiamente consapevole ma era riuscito miracolosamente a recuperare lo spirito dei primi due capitoli, con una trama basica e ridotta all’osso, affidandosi nuovamente a stunt folli e impossibili.
Suddiviso in cinque atti spalmati su un minutaggio vicino alle due ore e mezza, Furiosa è una origin story e in quanto tale deve per forza di cose ampliare la narrazione, concentrarsi sul worldbuilding (il film ci porta all’interno di Gastown e Bullet Farm che in Fury Road erano citate ma non ci venivano mostrate) e costruire un passato relativo alla sua eroina. La prima parte funziona a dovere, più avanti perde forza e mordente ma ha comunque dalla sua scene destinate a restare e a imprimersi nella memoria, come il lungo, adrenalinico e impressionante assalto alla blindocisterna (topos ricorrente nella saga, a partire dal finale potente e indelebile di Mad Max 2 ripreso poi in Fury Road che purtroppo, per i più, è l’unico termine di paragone possibile, come se i primi tre film non fossero mai esistiti).
La parte finale presenta alcuni dei difetti tipici del blockbuster americano contemporaneo (e qui si torna ai cinecomics menzionati in precedenza), diventa ridondante, con una conseguente perdita di ritmo e tensione, è infarcita di dialoghi banali e superflui e sembra indecisa sulla chiusa, che puntualmente e prevedibilmente si riallaccia e ricollega in modo pedissequo a Fury Road, sempre in nome di quel processo di normalizzazione e marvellizzazione di cui non sentivamo il bisogno e la mancanza.
di Boris Schumacher